Parlare di Renzo Zenobi è parlare della canzone d’autore italiana nella sua accezione più autentica. Anche se oggi il suo nome a qualcuno potrà dire poco, o al massimo evocare il lontano ricordo di “Silvia“, canzone del suo primo album, nella sua carriera Zenobi, dopo gli esordi al Folkstudio di Roma, ha collaborato con tantissimi artisti, ha suonato la chitarra in alcuni dischi di Francesco De Gregori (suo è il fingerpicking di “Pezzi di vetro“), ha collaborato con nomi del calibro di Lucio Dalla, Ron, Paolo Conte, Nada, Ornella Vanoni, Piero Ciampi, Claudio Baglioni, gli Stadio. Caratterizzato da una sensibilità poetica non comune, ha purtroppo dovuto scontrarsi col mondo spietato della discografia, e negli anni 80 la sua proposta musicale raffinata e incurante delle mode lo ha spinto ad abbandonare la musica, o meglio, l’industria discografica, perché a suonare e cantare ha continuato, fino a tornare a incidere negli anni 90 e ad avere proprio adesso un disco nuovo in uscita, “Volando“. Per maggiori dettagli sulla sua vita e la sua produzione discografica vi rimando al suo sito ufficiale. Qui avremmo voluto parlare con Renzo soprattutto di “Silvia“, ma alla fine abbiamo parlato di tante cose, scoprendo una persona di una disponibilità e gentilezza uniche.
![]() La copertina del suo primo album “Silvia” (1975) |
![]() Al Folkstudio con Lucio Dalla e Francesco De Gregori |
L’INTERVISTA
So che non ami troppo raccontare le tue canzoni, perché mi hai detto che parlano da sole
Non mi sembra molto importante ai fini della fruizione di una canzone sapere cosa c’è dietro, anche perché non c’è mai una sola storia dietro a una canzone. Dietro ci possono essere tantissime esperienze accantonate in anni e anni, che poi escono fuori in una storia che magari qualcuno ti ha raccontato e che tu fai tua, ricamandoci sopra quello che ti pare, e così nasce una canzone. Per cui non è molto facile spiegare, a meno che non canti una canzone di una storia che riguarda un fatto avvenuto realmente, e allora in quel caso puoi raccontare come ti è venuto in mente di raccontarlo in una canzone.
Beppe Severgnini ha inserito “Silvia” tra i 20 brani fondamentali della musica italiana, commentandola “La Toscana in una canzone”.
Beh, lui è molto gentile. A lui piacciono le mie canzoni per cui le considera delle cose belle, però insomma… voglio dire, le canzoni sono talmente tante, come si fa a dire “questo è più bello di questo”? Si può dire semmai “mi piace o non mi piace”.
Cominciamo dai tuoi inizi al Folkstudio, che è stata un’esperienza fondamentale per la musica italiana.
Il Folkstudio era un posto molto particolare. C’era il proprietario che adorava la musica folk, e aveva messo su questa specie di stanzone sotto terra, in cui c’era da una parte un bar, poi dietro a una tenda c’era una sala diciamo da ascolto, con un palchetto d’angolo e sedie da una parte e dall’altra. Il palco era alto sì e no 50 cm, c’era una sedia sopra e si cantava così, senza amplificazione tanto la stanza non era grande, ci potevano stare al massimo 60/70 persone.
Però da lì è nato il meglio della canzone d’autore italiana.
Sì, perché tutto era molto semplice. Tu andavi da Cesaroni, che era il proprietario, e gli dicevi “Posso cantare 2 o 3 canzoni?” E lui ti diceva “Domenica pomeriggio, quando c’è l’esibizione degli esordienti, tu vieni, mi dai il tuo nome, io ti metto in scaletta e tu canti una canzone. Se piace alla gente, e se piace a me, ti faccio tornare, altrimenti se ti prendono a fischi arrivederci e grazie”. Io però ci andai portato da Francesco De Gregori, per cui in qualche modo ero già presentato da qualcuno che si era già esibito lì.
E hai cantato “Silvia”?
No, io al Folkstudio cantai una cosetta che mi ero inventato lì per lì e Cesaroni mi disse “Non è male questa cosa, perché non scrivi una canzone vera e propria?” Io andai a casa e scrissi questa famosa “Silvia”.
Come hai conosciuto Francesco De Gregori?
Edoardo De Angelis, che stava producendo il primo disco di De Gregori (“Alice non lo sa”) mi chiamò e mi disse “Renzo, so che tu sai fare il fingerpicking. Perché non vieni a suonare la chitarra per questo disco?” Così, durante le incisioni, io e Francesco diventammo amici e lui poi mi portò al Folkstudio e alla Rca dove firmai il mio primo contratto discografico. A De Gregori piaceva come suonavo la chitarra e quando fece “Rimmel” mi chiamò ancora per suonare. Poi suonammo insieme dal vivo al Teatro dell’Arte di Milano insieme a Ron e Lucio Dalla. Facemmo sette giorni di concerto, ognuno cantava le sue canzoni e poi si suonava su quelle degli altri. Fu una cosa molto bella e la prima cosa che feci in pubblico.
Nel corso degli anni hai poi collaborato con quasi tutti i più importanti cantautori italiani.
Beh proprio con tutti non direi… con Fabrizio per esempio non ho mai avuto occasione di fare niente. Ho collaborato sopratutto con quelli dell’area romana. Vedi, la cosa nacque, oltre che per un fatto logistico in quanto lavoravamo tutti a Roma, perché si diventava amici. Non è stato come capita spesso oggi che le case discografiche uniscono certi artisti per cercare di creare a tavolino delle nuove sinergie… la nostra era una cosa al di fuori dell’etichetta discografica. Siccome eravamo diventati amici era normale che si collaborasse alle cose degli altri. Quando feci “Telefono elettronico” ho chiamato Lucio (Dalla) a fare gli arrangiamenti perché mi pareva che fosse adatto alle mie canzoni, così facemmo questo disco con gli Stadio che suonavano, però ripeto: è nato tutto da una stima reciproca e dall’amicizia.
Qualche parola sulla collaborazione con Ennio Morricone, che arrangiò un tuo disco dopo che per molti anni aveva abbandonato la musica leggera.
Amavo molto Morricone, sia per le colonne sonore dei film ma soprattutto perché ricordavo che nei dischi dei cantautori degli anni 60 come Gino Paoli o Sergio Endrigo uno degli arrangiatori migliori era proprio Ennio Morricone. Quando ho scritto l’album “Bandierine” andai da Melis, che era il direttore dell’Rca, e dissi “Perché non chiediamo a Morricone se vuole fare l’arrangiamento di queste canzoni?” Lui rispose: “Proviamo, al massimo ci dice di no”. Invece Morricone chiese di ascoltare le canzoni, le ascoltò con attenzione e poi disse che non gli dispiacevano, gli sembravano interessanti soprattutto i testi, ed accettò. Ci fece aspettare 8/9 mesi ovviamente, perché aveva milioni di cose da fare, però alla fine abbiamo fatto questo disco.
E c’è stata una tua qualche collaborazione per gli arrangiamenti o ha imposto quello che voleva lui?
No, fece come voleva lui, assolutamente. Andò da Melis e chiese carta bianca. Chiese “Posso fare come voglio per mettere in pratica come io vedo queste canzoni, o avete dei suggerimenti?” Ovviamente lo lasciammo libero di lavorare come voleva e così fece.
E a proposito di arrangiamenti, che indubbiamente sono molto importanti per “vestire” una canzone, tornando a “Silvia”, oggi lo rifaresti ancora così orchestrale o fu in qualche modo una scelta imposta?
No, quella fu una scelta fatta dalla Rca. Volevano cercare di fare qualcosa di nuovo, di non usare gli stessi standard vecchi, e così Sergio Rendine e Pippo Mazzucca – i due arrangiatori – decisero di tentare questa strada col mio disco. Alla fine venne fuori un disco molto ridondante, mentre invece le mie canzoni avrebbero avuto un impatto migliore se avessero avuto arrangiamenti più scarni, magari una chitarra acustica e pochi alti strumenti, come poi io ho fatto in seguito. Era poi il mio primo disco,capisci che non avevo molta voce in capitolo e neanche le idee chiare. Avere molti musicisti, addirittura una grande orchestra… non mi pareva vero, per cui mi sono lasciato un po’ guidare.
E poi, all’inizio degli anni 80 ti sei un un certo senso ritirato. Come mai?
Quando Melis se ne è andato dalla Rca è scaduto anche il mio contratto e così anche la mia produzione discografica con loro ha avuto termine. Dopodiché Melis ha fondato una sua piccola etichetta con cui ho fatto altri due dischi, “Zenobi” e “Proiettili d’argento”, e quando lui ha cessato questa attività mi sono detto “Vabbè, ormai i dischi non si vendono più, le cose che scrivo io sono condivise da poca gente per cui basta, lasciamo perdere”, anche se a casa ho continuato a suonare e a comporre. Però non avevo più la voglia di rimettermi in gioco, finché poi la voglia mi è un po’ tornata e così eccomi qua, che ancora canto e con un disco nuovo che uscirà tra poco.
Come vedi l’attuale panorama musicale, tra musica liquida, youtube e talent? Non trovi che ai giovani di oggi venga a mancare quella che era la cosiddetta gavetta? Quel farsi le ossa che ti permetteva di resistere anche a un eventuale insuccesso? Oggi tantissimi cantanti nascono e muoiono in pochissimo tempo.
Ma adesso è tutto diverso. Non ci sono più le case discografiche che investono sui cantanti, adesso investono sulla canzone, per cui tu fai un pezzo, loro pensano che funzioni, vendono quello che possono ma poi non gliene frega niente se il prossimo pezzo che fai è brutto. Non te lo fanno fare ed è finita lì. Una volta era diverso: ai tempi nostri la casa discografica investiva per esempio su Renzo Zenobi, e se il primo disco non vendeva se ne faceva un secondo, e poi se non vendeva ancora un terzo, perché la casa discografica credeva nell’artista e nel suo potenziale e ci scommetteva su. Lucio Dalla ha fatto lo stesso, ci ha messo 20 anni ad uscire fuori, andando a Sanremo, facendo un sacco di dischi che non vendevano quasi niente, avendo difficoltà anche ad andare in giro a cantare fino a che è arrivato il successo, ma dopo tanti anni, e perché c’è stata la Rca che ha continuato a insistere. Se uscisse adesso probabilmente non riuscirebbe mai ad arrivare al successo, perché verrebbe abbandonato prima.
Per la canzone d’autore quindi oggi, secondo te, non c’è più spazio?
Mah vedi l’unico spazio che ci può ancora essere è quello dal vivo, dei concerti. Io adesso sto facendo questo disco nuovo ma so già che non ne venderò molte copie. Oggi vanno i tormentoni stagionali, il rap, ai ragazzi non interessa niente di ascoltare musica fatta di melodia, di parole messe in un certo modo, vogliono un passatempo, qualcosa da ascoltare mentre fanno altre cose. Non credo che ci sia più nessuno che si mette ad ascoltare un disco e fa solo quello. Perché? Perché non c’è più tempo, e la musica ha perso l’importanza che aveva.