Raccontare Ivan Graziani vuole dire raccontare una delle espressioni più originali della musica italiana. Vuole dire raccontare una via italiana originale al rock che per pochi splendidi anni è sembrata possibile. Vuole dire raccontare l’unicità di un artista che ha pagato sulla propria pelle l’indipendenza dalle mode, dalle ideologie, dai compromessi. Vuole dire raccontare di un poeta, un disegnatore, un raffinato compositore ma soprattutto di un creatore di storie come pochi altri, capace con poche frasi di farti “vedere” quello che cantava, trasformando una canzone di 4 minuti in un film. E sempre originale. Vuole dire raccontare di qualcuno che sapeva raccontare come pochi altri, almeno nel campo della musica italiana, e che ha caparbiamente percorso la sua strada senza inseguire per forza il successo o il consenso, sempre coerente con se stesso e con la sua coscienza. anche quando il clamore intorno a lui era calato, ma mai e poi mai l’affetto di chi ha avuto la fortuna di incrociarlo, di chi ha saputo andare al di là dell’effimero successo della canzone da classifica, per scoprire la poetica rock di un artista che forse la musica italiana non rimpiangerà mai abbastanza, e che se ne è andato troppo presto, lasciandoci per ricordarlo una manciata di canzoni, di ritratti dolci/amari, di rock’n’roll, di storie con “radici nel vento”.
Sulla musica di Ivan hanno scritto persone più autorevoli del sottoscritto, per cui per raccontare Ivan ho ritenuto che la cosa migliore fosse lasciare la parola a chi gli è stato amico, ai famigliari, a chi ha suonato con lui, ai giornalisti che lo hanno conosciuto, ai fan che lo seguono da anni sempre con immutato affetto, e che contribuiscono a mantenere viva la sua memoria e ancora presente più che mai la sua musica. A tutti gli amici che hanno accolto il mio invito a raccontare il “loro” Ivan il mio ringraziamento per le loro testimonianze e per la disponibilità dimostrata. Alcune testimonianze saranno più interessanti di altre, ma sono convinto che ognuna contribuisca ad aggiungere un tassello alla conoscenza a un artista che certo di prudenza non ne ha avuta mai
Non ha bisogno di presentazioni: moglie, collaboratrice, co-autrice di tante canzoni (anche se non accreditata), infaticabile e ostinata nel far sì che il nome di Ivan non venga dimenticato. La nostra storia non può che cominciare con lei, nella casa di Novafeltria dove ha vissuto con Ivan, e poi con Tommy e Filippo, dove dalla finestra si vede quello che fu lo studio dove fu registrato “Ivangarage“, davanti a una fetta di ciambellone fatto da lei (va detto, buonissimo).
Sappiamo che con Venditti Ivan ha suonato diverse volte, come è nata invece l’amicizia con Renato Zero?
Ai tempi d’oro della RCA tutti i maggiori cantautori italiani incidevano per questa etichetta. Io sono stata fortunata a poter vedere la sede in quei tempi, era una cosa meravigliosa: c’erano le presse con gli operai che stampavano i dischi, gli studi lavoravano fino a tarda notte, e c’era questo bar interno dove si incontravano tutti. Stavi lì e vedevi passare Renato Zero, Francesco De Gregori, Patty Pravo, Antonello Venditti, tutti i più grandi… E poi facevano delle feste di Natale in cui invitavano tutti ed era un modo di incontrarsi. Ivan e Renato si sono conosciuti quindi alla RCA, poi nel 1977 c’è stato un tour che si chiamava, mi sembra, Gente Giovane 77, con cui la RCA portava in tournée tutti suoi artisti e hanno avuto modo di frequentarsi ulteriormente. Quando andavamo a Roma ci si incontrava sempre, e Renato è sempre stato affezionato a Ivan. Quando andava a registrare dormiva a casa di Renato, per cui era una situazione molto carina. Hanno anche registrato delle cose insieme ed è stato lui a volere “Per sempre Ivan” (l’album postumo uscito nel 1999, Ndr) e ha coinvolto dentro al progetto Antonacci, Baroni, Venditti e gli altri.
A proposito di questo album, “Vita” era già una canzone finita?
Sì, quella canzone lui l’ha scritta per i bambini di Guido Lucarelli (medico, luminare nella cura della thalassemia e dei trapianti di midollo osseo, Ndr) che aveva uno studio a Pesaro e aveva conosciuto Ivan, tramite il Lyons club dove era stato ospite, e l’aveva invitato a visitare questo ospedale specializzato per i bambini. Ivan rimase molto colpito e si è molto affezionato a quest’idea, qualche volta andava lì con la chitarra e cantava per loro, e ha scritto “Vita” dedicata a questi bambini. Lui non ha mai fatto pubblicità ma ti assicuro che Ivan ha fatto spesso cose per beneficenza… Una volta è partito di sera con una nebbia che non ti dico, ed è tornato la mattina dopo essere andato non ricordo dove, a Pavia o Padova, in un istituto dove c’erano bambini con diagnosi gravissime, che oltretutto sapevano benissimo le condizioni in cui erano. Era partito con un giubbotto di pelle comprato da Pollini (negozio di Rimini molto di moda negli anni ’70, Ndr), e quando è tornato aveva un giacchetto di jeans misero misero. Gli ho detto: “Ma cosa hai fatto, l’hai perso? L’avevi pagato una fortuna!” “No” mi ha risposto, e mi ha raccontato che c’era una ragazzina che gli gli aveva detto “Io fra 4 o 5 mesi muoio, però mi piace molto questo giubbotto…” E così gliel’ha regalato. Lui faceva spesso di queste cose ma non lo faceva sapere a nessuno, lo dico io adesso perché non credo di dire niente di sbagliato ormai.
Sappiamo che da anni sei impegnata con un’associazione a sostegno dei bimbi Saharawi. Questa cosa coinvolgeva anche Ivan o è venuta dopo?
No, è venuta dopo, per caso. Organizzavo il Premio Pigro Cantautori in Vigna, in una vigna in Abruzzo, e venivano messe in vendita delle bottiglie di vino con le etichette disegnate da artisti famosi: Cascella, Paladino, Masci… Insieme alla fondazione di Massimo Otto e a questa cantina avevamo ricavato circa 12.000 euro dalla vendita di queste bottiglie, per cui spettavano 4.000 euro per ognuno. Una sera in un ristorante ho conosciuto una persona che mi parlò del popolo Saharawi. Io ovviamente non lo conoscevo, non è certo un popolo molto conosciuto. È un popolo nomade vessato dal Marocco che ha minato i loro pascoli, così alcuni di loro si sono assoggettati al Marocco e vivono lì come i tibetani con i cinesi, mentre altri sono stati accolti dall’Algeria in dei campi profughi, per cui i loro bimbi vivono nelle tende o in capanne fatte di fango, non hanno servizi sanitari, sono in circa 200.000. Questa associazione, Rio de oro Montefeltro, faceva venire alcuni di questi bambini in Italia, 5 o 6 alla volta, qui venivano operati e curati grazie alla Sanità romagnola e poi venivano rimandati nei campi, per cui quando partivano compravamo loro degli zainetti e li riempivamo di miele, medicine da banco ecc. tutte cose che per loro erano preziose. Parlando quindi al ristorante col responsabile di questa associazione mi disse che gli mancavano 4.000 euro per portare a termine i progetti per quell’anno, così glieli diedi io. Poi sono andata giù anche io alcune volte, facevo ascoltare loro le canzoni di Ivan e sentire questi bambini che me le cantavano era una cosa commovente. Ora purtroppo non ci sono più fondi, non ci sono più soldi, e io organizzo feste e cene a tema per raccogliere un po’ di soldi, ma l’anno scorso cono riuscita a portare su solo un bambino. Quindi questa mia attività è arrivata molti anni dopo la morte di Ivan ma sicuramente lui una cosa del genere l’avrebbe appoggiata in pieno.
Torniamo alla musica. Tu hai spesso collaborato ai testi di Ivan, giusto?
Ai testi sì. Lui ha sempre insistito perché anche io mi iscrivessi alla SIAE, ma a me non è mai interessato firmarle e apparire come co-autrice. Adesso lo dico perché conosco la genesi delle canzoni, quando le scriveva ero lì. Magari a me veniva un’idea, a lui ne veniva un’altra, io aggiungevo una parola, si strutturava il pezzo insieme, e poi alcune cose le ha scritte lui di getto. Ivan partiva sempre dalla musica con un testo in inglese inventato, e poi pian piano ci adattava un testo in italiano e ci divertivamo da matti, a volte venivano fuori delle rime disastrose! Ivan aveva una grande sensibilità e in un certo senso era un cronista, doveva raccontare quello che vedeva. Per esempio “Il campo della fiera” era un ricordo che aveva di quando era piccolo e stava a Teramo, di questo personaggio senza gambe coi ferri da stiro… se vai a Teramo sicuramente c’è qualcuno che se lo ricorda. Poi lui ci costruiva sopra una storia e secondo me quello è un pezzo bellissimo.
C’era qualche disco che Ivan preferiva o qualcuno che secondo lui era venuto meno bene?
Io penso di no, perché quando tu scrivi, scrivi a seconda di quello che senti in quel momento. Forse ci può essere stato qualche album in cui aveva meno da dire e qualche album più ispirato, ma sinceramente faccio fatica a rispondere. Sicuramente era molto attaccato ai primi dischi, però alla fine sono tutti figli tuoi, capisci… degli ultimi potrei dirti forse “Ivangarage”, ma dobbiamo dire che era estremamente avanti con le sue canzoni. Se citi un argomento io te lo trovo nei suoi dischi: ha parlato di pazzia in “La pazza sul fiume” in tempi in cui non ne parlava nessuno, ha parlato di violenza sui bambini in “Johnny non c’entra”, ha parlato di bullismo in “Kryptonite”. Il tema dei bambini torna spesso nelle sue canzoni soprattutto nel periodo in cui aveva dei figli piccoli, perché il tuo cuore e la tua sensibilità cambiano per forza. Io penso che lui non abbia mai avuto questo grande successo popolare, come altri suoi colleghi, perché era difficile da capire. Poteva sembrare a volte ermetico ma non lo era, anzi, se vogliamo era didascalico, raccontava cose reali o che gli venivano ispirate da cose che aveva visto e vissuto. Per esempio “Motocross”: mio fratello faceva il cross, ha vinto anche diverse coppe che erano nel soggiorno dei miei genitori, e mia mamma diceva sempre “Queste coppe non le voglio qui in giro”, le prendeva e le spostava da un’altra parte dove non si vedevano, mio fratello le rimetteva in soggiorno e così via. Una volta Ivan capitò in casa durante una discussione fra mio fratello e mia mamma, chiese cos’era successo, e io gli dissi “Niente, evviva il cross!”. A lui piacque questa frase, “Evviva il cross, evviva il motocross”, poi si ricordò di un amico che aveva firmato un sacco di cambiali per comprarsi io motorino, mise insieme questi frammenti e ci fece una canzone.
Però ai tempi di “Agnese” e “Firenze” il successo di pubblico l’ha avuto
Sì certo, però come molti si fermavano alla canzone che magari in quel momento va in classifica, senza approfondire la conoscenza dell’autore. Ti dirò che adesso, secondo me, è ancora peggio, perché a quei tempi le radio trasmettevano anche le canzoni tratte dagli album, non solo il singolo, e si parlava delle canzoni, l’autore riusciva a spiegarle, a dire chi erano i musicisti che ti avevano accompagnato, c’erano le recensioni sui giornali. C’era più tempo per spiegare, veniva dato più spazio all’artista. Adesso non è più così. Io non riesco a capire perché gli artisti, quando diventano famosi non si ricordano mai di chi ha suonato con loro. Non sento mai un cantante nominare il gruppo che lo ha accompagnato in sala… Nel Premio Pigro per anni ho fatto un omaggio ai grandi strumentisti, a quelli che “stanno dietro”: i batteristi, i sassofonisti, i violinisti, i chitarristi, i bassisti. Ne ho portati sul palco tantissimi.
Ivan non ha avuto un rapporto molto sereno con certa critica molto ideologizzata degli anni 70 che un po’ forse lo ha snobbato. Questa cosa gli dava fastidio?
Certamente Ivan non era servo di nessuno. Aveva le sue idee, voleva fare le sue cose e se non voleva fare qualcosa non c’era niente da fare. Una volta gli hanno proposto di fare una canzone che poi andò a Mina. Lui l’ha cantata, l’ha registrata ma poi l’ha lasciata lì. “Io voglio fare le mie canzoni” disse. Lui diceva sempre “Mi chiedono a che filone appartengo, e io rispondo che appartengo al filone abruzzese”. In quegli anni dovevi appartenere per forza a una scuola, o a uno schieramento politico, mentre Ivan ha sempre scritto di cose umane, di umanità, non si è mai addentrato nella politica, anche se poi attraverso le figure che cantava la politica entra comunque, magari non dalla porta ma dalla finestra, ma entra comunque. Lui ha suonato a qualche Festa dell’Unità, così come alle feste dell’Avanti o in qualunque posto lo chiamassero a suonare. Il lavoro era lavoro. Ivan diceva sempre “Ma scusa, se io avessi fatto il salumiere non avrei dato il prosciutto a te perché sei di sinistra o perché sei di destra? Io produco musica a la mia musica la do a tutti”.
Era molto prolifico come compositore?
Sì, ha lasciato molte canzoni. C’è un album che deve uscire a breve, vediamo se prima o dopo il film. Ma ci è voluto del tempo prima che qualcosa si muovesse. Io ho fatto la prima edizione del Premio Pigro nel 1998, un anno dopo la morte di Ivan, a Teramo, e piano pian,o un poco alla volta, ci sono voluti 22 anni prima di ottenere qualcosa, con una fatica che non ti dico. Avevo dei pezzi inediti di Ivan e volevo farli uscire, ma mi dicevano “Non è il tempo di Ivan è il tempo di Rino Gaetano, è il tempo di quello, il tempo di quell’altro”… ma scusate, gli chiedevo, qual è il tempo giusto? Chi lo decide?
IL FILM
Come molti sanno è in prepazione un film sulla vita di Ivan Graziani, la cui lavorazione purtroppo ha subito un inevitabile ritardo a causa del lockdown. Su suggerimento di Anna abbiamo chiesto informazioni all’uomo che è dietro al progetto, Gianluca Carrabs, Amministratore unico della SVIM (Sviluppo Marche S.r.l.).
Diciamo che il film è l’architrave centrale di un progetto più ampio che mira alla valorizzazione della figura di Ivan Graziani a 360 gradi. Sappiamo che Ivan oltre a essere un musicista era anche un bravo fumettista, un pittore, un artista poliedrico, quindi la nostra ambizione è che attraverso un documentario prima, e un film poi, si possa valorizzare questa grande figura che è rimasta per troppo tempo, dopo la sua prematura scomparsa, un po’ defilata rispetto alla fama che avrebbe meritato. Questo progetto si muove quindi da un lato attraverso il film e il documentario, e dall’altro con una serie di iniziative, anche musicali, che ricorderanno Ivan. Il progetto nasce da una serie di incontri che hanno come centro Urbino, dove nasce l’amore tra Ivan e Anna all’Università, dove anche io li avevo conosciuti, e dove con Anna nel 2007 abbiamo organizzato un’edizione del Premio Pigro. All’epoca ero Assessore in Regione Marche e abbiamo realizzato questo grande evento, tre giorni in cui una serie di artisti italiani hanno interpretato le canzoni di Ivan. Dopo un po’ di tempo ho incontrato Anna e insieme abbiamo pensato a questo progetto del film e del documentario, progetto che ha potuto partire grazie alla collaborazione della Regione Marche ma soprattutto della Film Commission delle Marche. Da un lato c’è la SVIM che co-produce il documentario, dall’altro c’è la Regione Marche, con la Film Commission, che produce il film, che parte da una sceneggiatura di Paolo Logli, e con la regia di Fabio Jephcott, un regista di grande esperienza che ha collaborato per esempio come assistente alla regia con Martin Scorsese. Saremmo dovuti partire ad aprile, ma ovviamente il progetto ha avuto un ritardo a causa dell’epidemia del Covid19 che ha investito tutto il pianeta, per cui si dovrebbe partire a fine agosto tra Urbino, Ascoli, Novafeltria e poi l’Abruzzo, il Gran Sasso, perché il film racconterà proprio la vita di Ivan, da quando era un ragazzo e sognava di diventare un musicista, e voglio sottolineare che un ruolo centrale nella pellicola sarà rivestito dalla storia d’amore tra Ivan e Anna. Io personalmente mi sono appassionato, oltre che alla musica di Ivan, all’amore che questa donna prova ancora per un marito che ormai è scomparso da molto tempo, ma che nei suoi racconti è ancora vivo e presente. Una donna che dopo tanto tempo è ancora così attaccata al suo amore è una cosa bellissima, straordinaria, che va celebrata in un film, sia nei momenti di gloria che in quelli magari più difficili, come capita per ognuno di noi. La loro storia d’amore permette di parlare dell’uomo e dell’artista, perché Ivan era sposato col rock e con Anna, e quindi ha portato avanti il suo sogno, la sua passione ma sempre insieme alla sua donna. Un altro aspetto molto bello è che i suoi figli continuano a seguire il sogno di Ivan che poi è diventato il loro. Il film parte come progetto per il cinema, sarà distribuito in 300 sale, poi però stiamo anche ragionando con la RAI per una coproduzione, per capire se sono più interessati al documentario o al film. Ci saranno delle sorprese molto interessanti per quanto riguarda il cast, con la partecipazione di attori di primo piano. Come dicevo purtroppo il lavoro ha subito uno slittamento e speriamo di cominciare a girare tra la fine di agosto e i primi di settembre. Le riprese dovrebbero durare 4 settimane, dopodiché c’è la fase del montaggio, della post-produzione ecc. ma molto dipende da come potremo girare il film, sempre a causa delle norme anti-contagio, che hanno reso il lavoro della produzione molto complicato, anche dal punto di vista assicurativo.
Tommaso “Tommy” Graziani è il primogenito di Ivan. Quando il papà muore Tommy ha 24 anni e, a differenza del fratello Filippo, ha avuto l’occasione di suonare con Ivan prima di costruirsi una ricca carriera solista, approdando poi a un’applauditissima serie di concerti dedicati alla musica del padre.
In casa mia ovviamente la musica c’è sempre stata. Io sono cresciuto con le canzoni di papà, anche perché aveva uno studio in casa e quando faceva le prove andavo spesso ad assistere. È stato Pasquale Venditto, credo, a insegnarmi i primi rudimenti della batteria, e ricordo che passavo delle ore a suonare accompagnando i suoi dischi, finché nella primavera del 96, quando papà era già malato, decise di darmi l’opportunità di suonare con lui. Un giorno mi disse : “Ok, facciamo l’estate insieme, facciamo un tour”. Visto che comunque si andava in giro a lavorare e non per divertirsi, e c’era uno spettacolo che andava fatto nel modo giusto, ha voluto assicurarsi che io fossi realmente in grado di farlo. Abbiamo passato un paio di settimane, io e lui, a San Leo, dove papà ha sempre provato e faceva la data zero dei tour. Il Comune di ha messo a disposizione una stanza e lì abbiamo fatto due settimane di prove, solo io e lui. Suonavamo tutti i suoi pezzi, lui mi spiegava cosa dovevo fare e io scrivevo tutto nel mio modo davvero poco scolastico in un quadernone che ho ancora, con tutti gli appunti. Mi ero insomma messo di impegno, volevo fare una cosa seria, con le parti, preparato sui tempi, gli stacchi, le velocità. Per il tour dovevamo completare la band, perché all’epoca aveva abbandonato Beppe Pippi e Pasquale Venditto con cui aveva suonato in trio per 10 anni. Siccome nel frattempo io frequentavo l’università di Bologna, inutilmente visti i risultati, andavo spesso al Drum 2000, un mitico negozio di batterie. Per un batterista era un sogno, ci passavo dei pomeriggi interi a suonare, a provare batterie, a cazzeggiare. Di fronte c’era Guitar 2000, che era la stessa cosa ma per le chitarre, che era frequentato da un sacco di musicisti, e così ho conosciuto Domenico Loparco, un bassista molto bravo di Bologna, che era, ed è tutt’ora, un fan di papà, già un musicista con una certa esperienza, aveva fatto dischi con Mingardi e suonato spesso in tournée. Quando con papà decidemmo di formare il gruppo gli dissi: “Sai, ho conosciuto un bassista a Bologna che dicono sia bravissimo. Io non ci ho mai suonato ma è simpaticissimo e mi piace molto, cosa dici, proviamo a chiamarlo?” Lui si è fidato, ha chiamato Domenico a San Leo, dove ha fatto un provino, e alla fine ha deciso che andava bene. Così avevamo messo insieme il trio, che era formato da papà, da un bassista fenomenale e da un batterista inesperto! Col senno di poi, non so se oggi lo rifarei… ho avuto un coraggio incredibile a buttarmi in quella cosa, addirittura prendendomi la responsabilità di tirare dentro un altro musicista! Le prove del tour le abbiamo fatte nel teatro di Novafeltria, quindi con tutto l’allestimento, le luci, il service ecc. e la sera, quando finivamo, Domenico restava con me un paio d’ore spiegandomi cosa magari non facevo bene, mi dava degli input, provavamo, e io piano piano mi sono messo a un livello diciamo accettabile di preparazione, per portare fino in fondo questo tour e non fare sfigurare papà.
La band funzionava quindi?
Mah, più che altro funzionava papà. C’è un video su youtube – perché allora non c’erano i telefonini e i video erano ripresi con le telecamere – che quando è stato pubblicato mi è preso un colpo, facevo proprio ca**are. Ascoltandomi oggi, con anni di esperienza, mi rendo conto che è stato un regalo che papà ha fatto a me e a lui stesso, perché probabilmente sapeva che non ci sarebbero state altre possibilità di lavorare insieme. Noi abbiamo fatto l’ultima data i primi di novembre e papà è mancato il primo di gennaio. Tramite un il suo road manager di Pesaro avevamo trovato due tastieristi, quelli che avevano fatto per intenderci “Gam Gam” insieme a Max Monti,per cui non proprio adatti al repertorio di papà. Mi sembra che loro abbiano fatto 4 date e poi, credo attraverso Claudio (Cardelli, Ndr) papà ha chiamato Giangio, un musicista anche lui di Pesaro (Giancarlo Del Vecchio, ex membro dei Log e componente dei Rangzen insieme a Claudio Cardelli, Ndr). Le ultime date le abbiamo fatte quindi in quartetto.
Ivan era già malato all’epoca di questo tour
Sì, le prime avvisaglie le ha avute nel ’95, quando si è operato. Nel periodo delle prove a San Leo e di quelle in teatro devo dire che stava relativamente bene, con l’aiuto anche dei farmaci. Considera che quando io ero a Bologna lo accompagnavo a fare la chemio… Poi le sue condizioni sono peggiorate pian piano durante l’estate e ogni tanto durante i concerti doveva fare delle piccole pause per prendere degli antidolorifici. Lui non era certo uno che si risparmiava, e non so come abbia fatto a suonare e cantare anche nelle ultime date che abbiamo fatto a novembre. Per me è stato un esempio di come affrontare questo lavoro, con la massima serietà. Devo dire che io metto insieme i pezzi della storia professionale di papà, anche degli ultimi anni, girando e conoscendo le persone che l’hanno conosciuto, che mi raccontano le cose più disparate, al limite del surreale. In Abruzzo ho conosciuto uno che mi ha detto: “Ogni volta che tuo papà suonava in zona io gli portavo il formaggio… ti scoccia se lo porto a te?”, in pratica per continuare la tradizione. Molta gente col vino, quasi tutte cose da mangiare devo dire.
Tuo padre amava il cibo?
Credo di sì, perché a me raccontano spesso di queste grandi cene dopo il concerto, che finivano tardissimo. Però vedi, laggiù è così, è quel mondo da festa patronale, una sorta di accoglienza incontenibile per cui alla fine ti trovi nel garage di qualcuno a mangiare e bere… e quello è il mondo che io comunque vedevo da bambino. Non lo stadio, il palazzetto, ma la piazza, e spesso neanche la piazza del capoluogo ma del paesino, e questo per me ha sempre avuto un grande fascino e ce l’ha tutt’ora. Anche Novafeltria è un piccolo paese, ha circa 6.000 abitanti, però è diverso: al centro-sud c’è un’altra atmosfera, e anche se sembra banale dirlo, un’altra ospitalità. E questa atmosfera riveste un fascino enorme per me, un po’ perché è legata ai ricordi d’infanzia, e anche perché quando si va a suonare spesso sono le feste di piazza, coi festoni e le luminarie. Pensa che il primo anno che ho conosciuto la mia compagna attuale, le mandavo una foto all’arrivo in ogni paesino dove andavo a suonare, e dopo la ventesima foto mi ha detto: “Ma siete sempre nel medesimo posto?”, perché erano tutti uguali: la piazza con la chiesa, le luminarie, a volte passa il Santo nei modi più disparati: a volte lo portano scalzo, o ricoperto di pane, o fatto con le spighe di grano, o coperto di fiori.
Quando eri piccolo lo seguivi nei concerti?
Sì, non spessissimo, ma ho tanti ricordi del retropalco, del camerino, dei tecnici, di tanti personaggi incredibili che papà poi ha disegnato. C’era per esempio l’Impresario, questa figura quasi mitica. Se hai presente il ritratto che ne ha fatto papà, devo dire che ha colto proprio i tratti di quella figura. Non faccio il nome, ma ricordo questo tipo che girava sempre in zoccoli e canottiera a rete… il classico intrallazzatore un po’ cialtrone, e io sono sempre stato affascinato da tutto questo microcosmo che girava intorno ai concerti. C’era uno che aveva una cicatrice nel fianco e che mi aveva raccontato che gli avevano dato una coltellata, mentre probabilmente si era operato di appendicite… insomma tutto il mondo che si incontra nelle tournée al sud che comunque danno da mangiare alla stragrande maggioranza dei musicisti italiani. Nei pilastri dei ponti vedi manifesti di gruppi che pensavi fossero estinti, e che comunque fanno le date, questo mondo parallelo delle feste di piazza che è incredibile e che spero comunque che non finisca.
Tuo padre era esigente coi musicisti che suonavano con lui?
Papà era un rompiballe (Tommy ha usato un’espressione più colorita, Ndr), questo me lo hanno confermato tutti, soprattutto i tecnici. Coi musicisti dipende: Domenico, il bassista, era molto bravo, quindi a lui lasciava fare un assolo lunghissimo… Con me è stato duro il giusto, secondo me, per quello che mi serviva. Io l’avevo presa di petto questa cosa, in maniera molto serie, quindi ero pronto ad accettare le critiche. Ti racconto un aneddoto al riguardo: c’è una canzone in cui il chitarrista ha una parte centrale dove c’è una misura in 5/4, un tempo dispari, e io una sera ho sbagliato. Mi sono accorto di sbagliare e comunque è stato un errore fatto sul palco, uno sbaglio che oggi non farei e che considererei grave. Dopo il concerto mi aggiravo mesto, mentre papà parlava coi fans, per vedere se mi chiamava o mi diceva qualcosa. Uno di questi fans gli chiese: “Ma è vero che il batterista è tuo figlio?” Lui si è girato verso di me, mi ha guardato e ha risposto: “Assolutamente no, mio figlio studia Legge all’università a Bologna!” E poi mi ha guardato ancora. Ma aveva ragione, perché l’ansia da palco è legittima, ci sta, ma papà diceva “Tu puoi avere la serata sì e la serata no, ma la tua serata no dev’essere comunque sempre sopra la sufficienza, quello è il no. La serata sì è quando fai qualcosa di meraviglioso”. Questa cosa mi è sempre girata in testa facendomi anche diventare molto esigente con me stesso, nei limiti ovviamente di quello che so fare, però ho sempre affrontato il palco con la consapevolezza che questo è il mio lavoro, e non è previsto che possa fare certi sbagli, e questa è una delle cose che mi sono rimaste di quel tour. Che poi spesso pensiamo che il pubblico non se ne accorga… È vero che il pubblico sembra che non si accorga mai di niente, però quando fai davvero una bella cosa ti batte le mani. È che all’epoca ero giovane e inesperto, e certe cose non le capivo proprio… me ne rendo conto oggi quando suono a volte con qualcuno che ha meno esperienza di me, che è convinto di fare bene e invece sbaglia, però ci vuole del tempo e magari qualcuno che te lo fa notare.
Quando hai cominciato a portare in tour le sue canzoni?
Nel 1994 papà mi aveva fatto conoscere un gruppo di Fano, a una Festa dell’Unità, me li aveva presentati dicendo che stavano cercando un batterista. Sono andato a Fano, abbiamo fatto delle prove, e abbiamo iniziato a suonare insieme e quella è stata la mia prima esperienza live prima del tour con papà. Dopo la sua morte però io mi sono fermato, pensa che da gennaio ho ripreso a suonare in autunno. Al funerale c’era il mondo intero, Renato Zero e un sacco di gente che diceva “Facciamo, organizziamo ecc.”… e poi ci fosse stato uno che dopo abbia teso una mano e detto “Ti do una possibilità”. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto partendo da zero, e senza sfruttare il nome di papà perché mi sono reso conto che a volte è controproducente, perché o ci si aspetta troppo o ci si aspetta poco. Invece così ero uno dei tanti e quello che mi sono guadagnato è stato merito mio. Dopo la morte di papà Filippo ha preso in mano la chitarra ed è diventato in poco tempo piuttosto bravo, anche lui aveva questo modo di suonare poco scolastico, così abbiamo messo su un trio con un bassista che si chiama Marco Battistini, e facevamo rock’n’roll e cose molto vintage. Andavamo a suonare in montagna dove mio zio aveva un locale sopra Torino, e ci faceva fare queste lunghe stagioni anche di tre mesi, suonando tutte le sere davanti a un pubblico internazionale e lì Filippo si è fatto le ossa. Una sera Pepi Morgia (light designer e regista, Ndr) era a cena a casa nostra e ci disse “Perché non fate le cose di papà?”. A Filippo l’idea piacque e così iniziò tutto. Facemmo la prima data a Longiano, che andò benissimo, e da lì è partita tutta la storia. Abbiamo anche cominciato a ripercorrere le tappe di papà, soprattutto al sud, facendo anche 40 date i primi anni, e abbiamo sempre incontrato un pubblico entusiasta. Vedi, papà non aveva certo il pubblico di De Andrè o di Dalla, però il suo pubblico è sempre stato un pubblico affezionato. Ci sono stati alcuni anni in cui ha sfiorato il grande successo, ma secondo me poteva fare di più… anche parlando con chi ci ha lavorato esce sempre questa cosa del suo carattere a volte difficile. Ha sempre fatto quello che ha voluto, non ha mai seguito l’onda, non si è mai allineato e questa cosa sicuramente un po’ l’ha pagata.
Il disco di tuo padre che preferisci?
Come disco intero “Ivangarage”, un disco sottovalutato ma secondo me bellissimo. Molto sanguigno, magari registrato male e mixato male, però era reale, era la fotografia di papà in quel momento. È stato registrato in casa, praticamente dal vivo, senza tanta tecnologia. Come canzoni mi piacciono molto “Ballata per 4 stagioni”, “Pasqua”, “Palla di gomma” mentre non mi piace per niente “Maledette malelingue”. A Filippo invece non piace “Signora bionda dei ciliegi” che per esempio a me invece piace moltissimo. Poi dopo un po’ Filippo ha preferito dedicarsi alle sue cose e io sono rimasto un attimo senza sapere bene cosa fare. La gente chiedeva e io non avevo niente da dare, perché senza Filippo era impossibile fare concerti magari con un altro cantante uomo, e così con la mamma ci è venuta in mente Lighea perché chiamando una donna eviti completamente il paragone. E poi la voce di Lighea, che era amica di papà, si è dimostrata perfetta per le sue canzoni, e secondo me viene fuori anche la parte emotiva.
Lighea mi ha raccontato di avere due canzoni scritte con tuo padre che sono ancora inedite: ha lasciato molte altre canzoni non incise?
Sì, in effetti abbiamo fatto fatto un lavoro allucinante l’inverno scorso perché avevamo un sacco di nastri a 8 tracce, solo che le macchine per ascoltarli sono ormai introvabili. Cercando ho trovato a Faenza un tipo che vendeva questo registratore, e l’ho chiamato dicendogli però che non volevo comprarlo, ma affittarlo, perché – gli ho detto – “ho questi nastri di mio padre, che si chiamava Ivan Graziani”. Neanche a farlo apposta esce fuori che lui era un fan di papà e ha voluto darmelo in prestito senza chiedere niente, così ho riversato tutto quello che avevamo ed è saltato fuori qualche inedito, qualche provino, e chissà che un domani non si riesca a farli uscire.
Mario Luzzatto Fegiz è uno dei più importanti e influenti giornalisti musicali italiani. Ha debuttato nel 1969 nello storico programma radiofonico della Rai Per voi giovani e dal 1971 collabora col Corriere della Sera per cui segue da decenni, come inviato, il Festival di Sanremo.
Chi ha seguito la carriera di Ivan ricorda che, almeno agli inizi, fra voi c’era qualche dissapore e tu lo avevi trattato nelle recensioni un po’ male
Ivan era indubbiamente un cantautore anomalo, il suo era un rock melodico con influenze progressive ed era uno che si incazzava per qualunque cosa, ma quello che lo faceva più arrabbiare era il fatto che io facevo una corte sfacciata a sua moglie. Primo perché mi era simpatica e secondo per farlo incazzare. Ricordo che quando era alla Numero Uno il suo ufficio stampa era Mara Maionchi. La tecnica comune all’epoca era di lisciare un giornalista influente come me, invece sia Ivan Graziani che la Maionchi usavano una tecnica un po’ brutale. Ricordo che la Maionchi mi disse “Se non parli bene di questo disco di Ivan Graziani ti sparo in bocca”… A parte questo, può darsi che sia stato trattato un po’ peggio da me perché in effetti aveva un approccio molto duro, ma probabilmente questa era una difesa rispetto a una sensibilità molto forte. Un altro problema era che, poiché non era facilmente incasellabile, era magari più facile e sicuro prenderne le distanze, invece di appoggiare una scrittura che era fortemente sperimentale. Ma poi col tempo era diventato un gioco delle parti fra di noi, come i miei battibecchi in televisione con Toto Cutugno. Se ne è andato troppo presto perché aveva ancora molte cose da dire. Ora tutto il suo repertorio è stato ampiamente rivalutato, ma ricordo che ai tempi era considerato molto particolare e non si riusciva a inserirlo nelle categorie classiche della musica pop-rock italiana.
Secondo te una certa diffidenza della critica nei suoi confronti potrebbe derivare dal fatto che Ivan non si è mai lasciato incasellare in nessuna appartenenza politica, a differenza invece di tanti altri cantautori dell’epoca?
Sicuramente è uno di quelli che ha sofferto della sindrome del ’68. Ricordo il Festival di Parco Lambro, e qualcuno di Re Nudo, di questa galassia della sinistra, mi disse di qualche cantante “Guarda, canta male, stona però è un bravo compagno per cui va bene”. Quindi l’equazione “impegnato uguale buono” esisteva, cioè il messaggio era spesso la cosa più importante… ma lui se ne sbatteva del messaggio, un po’ come Battisti, e quindi questa è una cosa che ha pagato, secondo me. Bisogna anche dire che era in concorrenza con dei calibri grossi, perché quello in Italia era un momento di grande vivacità, per cui era obbligato a confrontarsi con dei titani. Forse la sua morte è passata un po’ in sordina rispetto ad altri, ma dopo la sua scomparsa è rimasta l’amicizia con Anna, questa donna straordinaria, e con questa bella famiglia in cui tutti cantano e suonano. Avevo fatto un bel servizio sulla sua tomba, insieme ad Anna, per l’anniversario della morte e gli ho chiesto scusa per avere fatto la corte a sua moglie.
Mario Luzzatto Fegiz mi ha anche gentilmente inviato un breve ma profondo articolo che aveva scritto in occasione di una Mostra di disegni di Ivan, e che è rimasto inedito:
Esistono artisti che esprimono una correlazione (innata? Indotta?) fra tutto quel che pensano, scrivono, cantano e vestono. Insomma un’intima coerenza fra i vari aspetti della personalità. Ivan Graziani era sempre se stesso: non ci teneva a lusingare l’ascoltatore e tanto meno i giornalisti come me. Era imprevedibile, brutale e diretto. La durezza era in realtà la corazza che nascondeva un cuore romantico da tenere a bada. Come spesso accade ai super creativi la sola forma canzone gli andava stretta. Ed eccolo scatenarsi con un tratto spietato, subito riconoscibile che scava dentro un immaginario difficile da rappresentare con la sola canzone.
Un nome storico tra gli appassionati di musica italiana, e punto di riferimento per tanti batteristi. Ha iniziato giovanissimo e ha suonato con tutti i più grandi musicisti italiani: Lucio Battisti, Ivan Eugenio Finardi, Antonello Venditti, Ivan Cattaneo, Gianna Nannini, Fabrizio De Andrè, Area e tantissimi altri, in pratica fa parte della Storia della musica italiana. Con Ivan ha suonato negli album “Ballata per quattro stagioni“, “I Lupi“, “Pigro“, “Agnese dolce Agnese“, “Ivan Graziani” e “Cicli e tricicli“.
Il mio primo incontro con Ivan avvenne in studio per fare dei provini con Claudio Pascoli per un cantautore. Claudio Pascoli era il Direttore artistico della Numero Uno. In quel periodo si facevano un sacco di provini, non c’era la pre-produzione o i computer, ma si suonava un sacco in studio. Pascoli lo conobbi grazie a Eugenio Finardi: un giorno Finardi disse “Chiamo un sassofonista, che è il Direttore artistico della Numero Uno”. Considera che noi eravamo ragazzini di 17/18 anni, dello show businness non sapevamo niente… per noi Direttore artistico era una figura sconosciuta, lo consideravamo solo un sassofonista che era venuto a suonare con noi. Anche a lui piacque come suonavamo io e Hugh Bullen (bassista, Ndr) e ci chiamò per fare dei provini per la Numero Uno. Qui conobbi Ivan. Ci presentarono, perché io proprio non sapevo chi fosse, o che avesse già collaborato con i Flora Fauna e Cemento e altri. In breve ci mettiamo a suonare e ci troviamo subito in sintonia. Passa di lì Lucio Battisti, si ferma, mette la testa nello studio e dice “Ma cos’è sta roba? È bellissimo!”. Rispondiamo che stiamo facendo dei provini e lui continua: “Mi piace tantissimo quello che state facendo… volete fare delle cose con me?”
Sembra strano, ma allora non sapevo bene chi fosse questo Lucio Battisti. Ci siamo visti una settimana dopo, ci ha fatto sentire alcuni brani (che avrebbero fatto parte del disco “La batteria il contrabbasso eccetera”, Ndr), che noi abbiamo cambiato completamente. La prima versione di “Ancora tu” per esempio era con la chitarra acustica, una specie di ballata, in pratica la versione che appare alla fine del disco. Noi gliel’abbiamo stravolta completamente, fino ad arrivare al pezzo ritmato che è nel disco, e a lui questo piaceva immensamente. Decise di cambiare la band che lo aveva accompagnato nelle prime registrazioni (musicisti del calibro di Vince Tempera, Alberto Radius, Mario Lavezzi, Gabriele Lorenzi, Bob Callero e Gianni Dall’Aglio, che facevano parte del supergruppo Il Volo, Ndr), bloccò il lavoro e disse “Basta, da domani si suona con la nuova band”.

Suonare insieme a Lucio permise a me e a Ivan di frequentarci, fino a diventare amici, e cominciammo a frequentarci anche fuori della sala di registrazione. Io andavo a casa sua e più spesso era lui a venire da me, perché io a casa avevo già una sala prove dove poter suonare.
Quando andai in studio per registrare la puntata di “33 giri” (trasmissione di Sky, Ndr) dedicata a Ivan, devo dire che è stata una delle più grandi emozioni della mia vita… io lì stavo davvero suonando con Ivan in cuffia. C’era ancora Ivan che mi chiamava “Walterino”, e credimi: ho ancora la pelle d’oca adesso a raccontarlo! La tecnologia mi ha permesso di provare delle emozioni incredibili, poter suonare per qualche ora ancora con Ivan e Hugh Bullen, due grandi amici che se ne sono andati troppo presto. In quei momenti stavo rivivendo un periodo di 40 anni fa, ero ritornato Walterino, e nessuno di quelli di Sky si è accorto che mi scendevano le lacrime… Grazie alla tecnologia ho potuto rivivere esattamente quello che provavo tanti anni fa. Quando ho messo le cuffie e ho sentito la voce di Ivan dire “Walterino!” mi è venuto da piangere… è stato come entrare in una macchina del tempo.
Tastierista, compositore e arrangiatore, anche Claudio Maioli appartiene alla storia della musica italiana degli anni 70 e 80. Il suo esordio nella musica “pop” avviene con lo storico album “Anima latina” di Lucio Battisti, con cui suonerà anche in “La batteria, il contrabbasso eccetera“, “Io tu noi tutti” e “Images“, cui seguiranno le collaborazioni con Antonello Venditti e con Ivan, per cui ha suonato le tastiere negli album “Ballata per 4 stagioni“, “I Lupi“, “Pigro” e “Agnese dolce Agnese“. È anche autore di colonne sonore e di sigle per cartoni animati televisivi.
Tu e Ivan Graziani vi siete conosciuti durante le registrazioni dell’album “Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera” di Battisti, in cui ambedue avete suonato, giusto?
Sì, io avevo già suonato nel mitico disco di Lucio “Anima latina” – che fu anche il mo debutto – e Ivan aveva già avuto dei rapporti con la Numero Uno (l’etichetta di Lucio Battisti, ndr) con l’Anonima Sound e anche con la Premiata Forneria Marconi, di cui per un momento sembrava che sarebbe diventato il cantante. La differenza abissale con Lucio fu che con lui diventammo subito amici, al punto che quando venne a Genova per fare le prove per il tour con Venditti, venne a dormire a casa mia, così come io sono stato ospite suo e della moglie diverse volte, sia a Milano sia quando si sono trasferiti a Novafeltria. Addirittura uno di quei giorni di prove a Genova, lui e Venditti vennero a pranzo dai miei suoceri, e con la mia ex-moglie dovemmo quasi legare suo padre alla sedia perché voleva andare a gridare a tutto il condominio che c’erano Venditti e Graziani a pranzo a casa sua!
Tu hai suonato nel suo primo album “Ballata per 4 stagioni”. Come nacque il tuo coinvolgimento in quel disco?
Probabilmente mi chiamò la RCA, insieme a Claudio Pascoli (produttore del disco, ndr), per via della mia collaborazione ai dischi di Battisti, collaborazione che mi aprì le porte, non posso negarlo. Come ti ha confermato Walter (Calloni), più che session men eravamo amici, musicisti che amavano suonare insieme, e il fare musica insieme con questa disposizione d’animo mi fece entrare in un mondo nel quale non avevo mai avuto occasione di affacciarmi, e a cui, forse snobisticamente, non tenevo particolarmente.
Ho suonato nei primi quattro album di Ivan. Il nostro rapporto musicale finì quando io, per motivi discutibili, decisi di chiudere con quel mondo, e mi trasferii a Roma perché volevo fare musica mia, come se non potessi farla pur facendo il turnista o il session man! Confesso, col senno di poi, che la mia fu una stupidaggine. Chiusi quindi la mia collaborazione con Ivan, senza però nessun litigio ci tengo a sottolinearlo, e ribadisco che fu una stupidaggine perché in questo ambiente se non sei proprio un padreterno – e io non lo ero – dire dei no ha delle conseguenze, e io nel 1979 dissi di no a Ivan e a una tournée con Loredana Bertè, e quindi uscii dal giro della musica pop. La mia strada e quella di Ivan si incrociarono ancora agli inizi degli anni ’80, quando io per alcuni mesi lavorai con la RCA come consulente editoriale, un termine pomposo che in realtà significava che dovevo ascoltare una miriade di cassette di gente che voleva sfondare nel campo della musica leggera, per selezionare chi poteva valere qualcosa. Peccato che poi il mio parere non venisse quasi mai preso inconsiderazione… per esempio ricordo che segnalai Mariella Nava, che però non ottenne nessun contratto. Comunque, mentre svolgevo questo compito un po’ ingrato, nel 1981 Mario Cantini, che era il capo delle Edizioni della RCA, quindi un pezzo grosso, sapendo che ero amico di Ivan, oltre che suo collaboratore, e avendo l’opportunità di inserire un brano delle edizioni RCA nella versione italiana della colonna sonora di un film americano che prometteva molto, ma che poi fu un flop (“Il grande ruggito”, Ndr), mi chiese se me la sentissi di andare da Ivan per convincerlo a scrivere un paio di canzoni per questo film. Ivan compose e realizzò per il film due canzoni, “Lontano dalla paura” e “Grande mondo”, ma la pellicola, come detto, fu un insuccesso totale al botteghino, e la mia permanenza alla RCA, che era legata al successo del film e del 45 giri realizzato con Ivan, terminò. Per promuovere il film e il disco facemmo diverse sedute fotografiche. Con Ivan andammo in un piccolo zoo dove avevano animali addestrati che venivano usati nel cinema, e il servizio prevedeva che un tigrotto di sei mesi – non ti dico quanto era grande – gli mettesse le zampe al collo, tutti noi ci tenevamo a distanza e ci meravigliammo che Ivan non se la facesse addosso, scusami l’espressione. Considera che il “cucciolo”, in piedi sulle zampe posteriori, sovrastava ampiamente la testa di Ivan, che non era certo un gigante.
Voglio raccontarti anche un altro episodio in cui è coinvolto Ivan in maniera assolutamente positiva. Nel 1977 io avevo registrato con Patty Pravo “Pensiero stupendo” e il retro del singolo “Bello”, e avrei dovuto fare con lei l’intero album e poi andare in tournée. Con Nicoletta c’era stata un’intesa molto bella, ricordo che una volta ci eravamo messi su due tastiere differenti e avevamo improvvisato qualcosa, e lei mi disse che era la prima volta che le riusciva di improvvisare con qualcuno. Lei aveva mi sembra un quinto anno di pianoforte, per cui ci teneva molto al tastierista. Facemmo le prove a Roncobilaccio, che forse molti conoscono per la canzone di Venditti “Bomba o non bomba”, che era un luogo grosso modo a metà strada tra i musicisti milanesi e i romani. Nicoletta si presentava alle prove stancamente non prima di mezzogiorno, e un giorno dissi ai miei colleghi – tra cui figurava il suo allora fidanzato, un sedicente chitarrista californiano (tale Paul Jeffery, Ndr) – “Sentite ragazzi, visto che dobbiamo fare un disco e poi anche una tournée, mentre aspettiamo che Nicoletta scenda perché non proviamo tra noi?”. Tutti aderirono volentieri, tranne il suo boyfriend che si era sentito esautorato, e andò a dirle che io ero troppo razionale per loro, in quanto ero un ingegnere, che loro avevano bisogno di gente più spontanea e cose del genere… Raccontai questa cosa a Ivan e lui venne a Roncobilaccio a pranzo con noi, e parlò con Nicoletta. Le disse “Guarda che se hai intenzione di estromettere Maioli fai malissimo, perché è un amico, un elemento prezioso ecc. ecc.” Grazie quindi a Ivan che in qualche modo mi riabilitò ai suoi occhi, potei suonare quel capodanno con Patty, anche se poi la nostra collaborazione si fermò lì.
Un altro nome storico della musica italiana. Bassista, compositore e paroliere, ha fatto parte di vari gruppi tra cui Osage Tribe (con Franco Battiato) e il supergruppo Il Volo; ha suonato in dischi di Lucio Battisti (sua è l’introduzione de “Il nostro caro angelo“), Eugenio Finardi, Loredana Bertè, Patty Pravo e Anna Oxa per cui ha scritto gran parte dei testi del disco “Anna non si lascia“. Con Ivan ha suonato, oltre che nel disco ” Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera” di Battisti, negli album “Agnese dolce Agnese” e “Ivan Graziani“.

Ho conosciuto Ivan, e ho suonato con lui, in quel bellissimo periodo deiprimi anni ’70 in cui spesso, quando si registrava, si viveva anche insieme. Era questa specie di famiglia allargata stanziale che si era creata a Milano in cui io ebbi la fortuna di arrivare da Genova. Con Walter Calloni avevamo formato una coppia ritmica fissa, e ricordo che quando abbiamo lavorato con Anna Oxa, per cui avevo scritto dei testi, apparve un articolo su un giornale in cui era scritto “Parole di Bob Calloni”… il giornalista aveva fatto una crasi fra Calloni e Callero.
Come hai conosciuto Ivan?
Guarda, devo dire che la mia memoria non è un granché, ma credo che la cosa nacque al Castello di Carimate, questo castello posto fra Milano e Como dove Antonio Casetta, una specie di piccolo tycoon dell’epoca (discografico della Produttori Associati, tra gli artefici del successo di Fabrizio De André, Ndr), aveva realizzato degli studi di registrazione senza badare a spese. Lì si era creato una specie di polo di produzioni, erano anni in cui gli studi venivano decentrati fuori da Milano, cosa che credo fosse iniziata con Il Mulino dove io avevo registrato con Battisti. Non ricordo esattamente il momento in cui conobbi Ivan, ma è stato quando abbiamo inciso “La batteria, il contrabbasso eccetera”. Io ho suonato solo in alcuni dei brani di quel disco, perché a un certo punto noi della band (Il Volo, ndr) siamo stati sostituiti in blocco dallo stesso Battisti, e tra i nuovi musicisti che aveva chiamato c’era proprio questo Ivan Graziani. Ci siamo ritrovati poi nel 1979 quando suonai nel suo album “Agnese dolce Agnese”. Aveva una grinta con la chitarra che era incredibile, molto superiore a tutta la pletora di chitarristi rock dell’epoca. Forse come lui solo Alberto Camerini. Ivan poi pensava solo alla musica e alle donne (Callero ha usato un’espressione più colorita, Ndr)… ricordo dei gran discorsi sulle categorie: le parrucchiere e cose del genere. Era un grandissimo spirito, un vero compagnone. Il suo modo di suonare era molto istintivo, non era di scuola ma un modo tutto suo, assolutamente non ortodosso. E secondo me era soprattutto un grande chitarrista ritmico, era un piacere suonare con lui.
Quando preparavate un disco si occupava solo lui degli arrangiamenti, o vi lasciava un certo spazio?
Guarda, com’era d’uso a quei tempi, c’erano sempre delle co-partecipazioni tra il titolare e i gruppi che partecipavano alle registrazioni. Per esempio in “Agnese” io ho fatto quasi una specie di assolo continuo col basso, c’era questa grande libertà e rispetto per la creatività di noi musicisti.
Dal vivo però non hai mai suonato con lui.
No dal vivo no, anche perché in quel periodo ero letteralmente subissato di richieste. Ricordo che oltre al disco di Ivan stavo facendo qualcosa con la Nuova Compagnia di Canto Popolare e con Eugenio Finardi, e giravo fra tre studi con un po’ di sbattimento! Io, Walter e altri facevamo parte della nuova generazione di turnisti che aveva preso il posto dei vecchi turnisti. All’epoca c’era bisogno che un musicista facesse subito al meglio il suo lavoro, perché fare dei tagli sui nastri era un casino, non era facile come oggi, non c’erano i computer. E il compito dell’arrangiatore o del produttore era quindi creare una band di registrazione che fosse quasi un gruppo, e che fosse parte attiva dell’arrangiamento. Anche se poi gli arrangiamenti venivano firmati da una persona, in realtà li facevamo insieme e certi dettagli di una canzone venivano proprio da noi musicisti.
Tastierista, compositore, arrangiatore, Fabio Liberatori è stato tra i fondatori degli Stadio. Nel 1982 ha esordito come autore di colonne sonore scrivendo con Lucio Dalla e gli Stadio le musiche per il film di Carlo Verdone, “Borotalco”, e da allora, ha composto le colonne sonore della maggior parte dei film del regista romano. Ha lavorato come arrangiatore, produttore e tastierista con Paola Turci, Mario Castelnuovo, Lucio Dalla, Renzo Zenobi, Ron, Luca Carboni e altri. Dal 2017 fa parte della nuova formazione dello storico gruppo prog “Reale Accademia di Musica“. Ha collaborato con Ivan come tastierista e arrangiatore dell’album “Piknic“.
Come è nata la collaborazione con Ivan?
All’epoca stavo cominciando a realizzare varie cose con la BMG Ariola, che mi aveva chiesto se io potessi fare produzione e arrangiamenti per qualche loro artista che ritenevano adatto al mio modo di lavorare. In questo ambito mi convocarono e mi dissero “Guarda, c’è Ivan che sta preparando il nuovo album, i pezzi sono tutti molto rock. Lui ha sentito parlare di te, ti conosce per le cose che hai fatto con Dalla e con altri, e gli farebbe piacere collaborare con te. Ha già tutte le canzoni abbastanza pronte come testi e musica, si tratta di capire che disco fare… A noi piacerebbe qualcosa che lo modernizzi dal punto di vista degli arrangiamenti, che non sia la solita formazione con chitarra, basso e batteria, ma che sia qualcosa si più organico, che sono le cose che sai fare tu con le tastiere”. Qualche giorno dopo incontro Ivan, parliamo di tutto il progetto e lui ma fa ascoltare le canzoni. Ce ne erano alcune che mi piacevano molto, ma lui non era molto contento della produzione standard che aveva sempre avuto. Gli sarebbe piaciuto questa volta dare un’impronta live alle sonorità del disco. Ci poteva essere quindi un bello scontro, diciamo, tra un sound dal vivo che lui voleva realizzare come basi per le canzoni, e il mio lavoro di tastiere e di arrangiamenti che sarebbe andato a completare questa parte. Credo che questa fosse una metodologia più unica che rara. Abbiamo allestito un vero stage in una delle sale grandi dell’RCA, montando la batteria, il basso, la chitarra di Ivan e i microfoni per le voci come per un concerto, e il gruppo base ha suonato così, in diretta. Sono stati fatti vari take in modo che il sound, anche dal punto di vista della microfonatura, avesse quella patina un po’ rozza, di suono vero, come piaceva a noi, già direttamente dalla registrazione. Questa fu una richiesta specifica proprio di Ivan. Gli arrangiamenti primari quindi nacquero così, con chitarra, basso, batteria e una voce guida, dopo di che io feci un grosso lavoro di aggiunta di tastiere e di sonorità coi mi miei synt, e pezzo per pezzo ho cercato di fare degli arrangiamenti che portassero un po’ di novità. In qualche brano c’è anche una batteria elettronica, una cosa inedita per i dischi di Ivan. Quello che ci tengo a dire è che comunque il mio lavoro non stravolgeva l’impronta live che Ivan aveva voluto fortemente. Certo erano bei tempi, gli studi erano molto ampi, avevamo mezzi a disposizione e il tempo non era un problema. Erano produzioni ancora come si deve. Potevamo sperimentare, provare cose nuove… non arrivavi che avevi già tutto pronto sul computer.
E Ivan rimase soddisfatto del risultato finale?
All’inizio era molto preoccupato di doversi confrontare con un arrangiatore che aveva magari preferenze per i suoni elettronici, ma poi capì che da parte mia c’era il massimo rispetto per il suo lavoro, e che le proposte che gli facevo volevano solo enfatizzare l’atmosfera delle varie canzoni. Si rese conto che c’era questo sapore diverso rispetto al sound cui lui era abituato, che era basato soprattutto su chitarra, basso e batteria. Però, come poi stava accadendo anche con gli altri cantautori dell’epoca, si stava cercando di andare avanti. Tu puoi benissimo fare come certi artisti che fanno sempre lo stesso arrangiamento, è una scelta accettabilissima, però puoi anche fare degli esperimenti, dei tentativi di crescere.
E Ivan Graziani non si può certo dire che non fosse un artista che aveva il coraggio di fare quello che voleva.
Era una persona estremamente sincera e diretta, non si nascondeva mai dietro un dito. Io ne ho dei ricordi bellissimi. Era molto simpatico, esilarante, era davvero spiritoso e gli piaceva molto scherzare. Al tempo stesso era molto testardo: aveva degli assiomi musicali che era molto difficile scardinare, alcuni giustissimi e altri opinabili, almeno dal mio punto di vista. Per esempio per lui non era importantissima una accordatura perfetta degli strumenti, e a me invece all’epoca questa cosa dava fastidio quando lo sentivo… Erano però cose molto delicate da dire.
Hai avuto modo di frequentarlo anche dopo il disco?
Qualche volta ancora ci siamo visti, ma lui viveva lontano da Roma dove io risiedevo allora. Il disco non ebbe successo come altri dischi suoi anche perché forse gli mancava una canzone che fosse un vero hit. Io ho sempre avuto questa impressione, ma del resto non credo che lui scrivesse una canzone pensando di farne un successo. Ed è paradossale che i suoi più grandi successi siano state le ballate come “Agnese” o “Firenze”, mentre lui teneva tanto ai pezzi rock.
Beppe Pippi e Pasquale Venditto sono stati per diversi anni la perfetta sezione ritmica per Ivan, quello più rockettaro. Provenienti entrambi dai Forum Livii, una delle prime formazioni di progressive rock italiano, ambedue romagnoli al 100%, hanno accompagnato spesso Ivan in tournée e hanno suonato insieme degli album “Piknic” e “Ivangarage“, mentre Beppe Pippi ha suonato anche negli album “Agnese dolce Agnese“, “Ivan Graziani” e “Malelingue“.
BEPPE PIPPI
Ho conosciuto Ivan quando lui ancora suonava con l’Anonima Sound. Io all’epoca suonavo con I Baci, un grUppo di Forlì che era prodotto da Checco Marsella dei Giganti; una sera Ivan ci venne a sentire all’Altro Mondo di Rimini, e nacque subito una simpatia a livello musicale. Ognuno poi ha preso la sua strada, io ho fatto delle cose anche abbastanza importanti, fino a che anni dopo ci siamo incontrati in un locale dove io suonavo con un’orchestra da ballo. Lui stava già avendo successo e mi chiese se volevo far parte del suo gruppo. Presi la palla al balzo, perché oltretutto conoscevo e mi piaceva molto quello che stava facendo. L’avevo visto suonare anche molti anni prima, quando con l’Anonima Sound suonava in dei locali a Bellaria, per cui mi faceva molto piacere avere l’occasione di lavorare con lui. Anche il batterista era di Forlì, come me, e aveva suonato con I Baci, si chiamava Gilberto Rossi, ma il suo nome d’arte era Attila. Così formammo questo gruppo prendendo anche un tastierista di Faenza, Fabrizio Foschini, che poi ha suonato con gli Stadio. Facemmo così la prima tournée ma io non mi trovavo a suonare con Attila, e lì fu un mio errore, perché dissi ad Ivan che non lui non andavo d’accordo e così lasciai il gruppo. Forse feci male, ma me ne sono accorto dopo… Per qualche anno non ci siamo rivisti, poi verso la fine dell’estate dell’82 andai con mia moglie a vedere un suo concerto. Andai a salutarlo e lui mi fece una festa incredibile e mi disse che voleva riformare il trio, così trovai il batterista, Pasquale Venditto, anche lui di Forlì, che però da qualche tempo aveva smesso di suonare e aveva aperto un’osteria. Andai a trovarlo e riuscii a convincerlo a riprendere a suonare, anche se non era molto convinto perché sai, con la batteria se non sei allenato è un casino… Cominciammo a fare le prove a San Leo come trio, e avevamo un fonico bravissimo che purtroppo è morto, Piero Grandi, che era in effetti il quarto elemento. Il fonico è fondamentale, soprattutto dal vivo. Ci siamo davvero divertiti la faccia in quegli anni. Ho suonato con lui dall’82 al 92/93, eravamo affiatatissimi, Pasquale era come un fratello per me, e Ivan si affidava molto a noi. Quando andavamo sul palco era un divertimento. Devo dire che io con Ivan non ho mai litigato, eravamo amici più che colleghi. Spesso andavo a casa sua, facevamo delle feste, si mangiava insieme con Anna, eravamo quasi una famiglia. Mi emoziono ancora a ricordare quel periodo… Secondo me se Ivan fosse ancora con noi farebbe ancora tournée, gli piaceva molto stare con la gente, non era certo uno che se la tirava… abbiamo suonato davvero ovunque ci chiamavano. Partivamo da Forlì in macchina con un ragazzo, Maurizio, che ci faceva le luci e andavamo dappertutto, anche lontano, spesso al sud. Non ti nascondo che comunque era anche il nostro lavoro, avevamo tutti famiglia, e con Ivan devo dire che si stava bene anche da quel punto di vista. Dopo la sua morte, insieme a Pasquale coi suoi figli abbiamo fatto diverse cose insieme, grazie ad Anna. Pasquale oltretutto canta benissimo, e facevamo delle canzoni a tre voci. Tommy (Graziani, Ndr) è diventato molto bravo, ha preso molto da Pasquale. Veniva a San Leo alle prove quando era ancora un ragazzino e ora si è costruito una sua carriera.

PAQUALE VENDITTO
Ricordo che con Ivan ci furono vari tentativi di collaborare… prima non poteva lui, poi non potevo io, finché abbiamo trovato un punto di contatto. Devo dire che lui mi ha dato fiducia perché io avevo lasciato la musica da diversi anni, e grazie a lui ho tirato fuori la batteria e ho ricominciato a suonare. Però lo conoscevo già da tempo: quando suonavo in vari gruppi rock come i Cliffters o i Forum Livii andavo spesso all’Altro Mondo di Rimini e facevo ascoltare delle cose a Velio (Gualazzi, Ndr) il batterista dell’Anonima Sound, gruppo che ricordo quando facevano il cosiddetto “concertino”, come si chiamava allora, nei bar di Riccione, Cattolica, Bellaria. Dopo tanti anni siamo riusciti a convogliare a nozze: lui aveva preso come bassista Beppe (Pippi, Ndr), che a un certo punto aveva mezzo litigato con Attila (Gilberto Rossi, Ndr) il batterista, così a un certo punto vennero a chiedermi se avevo voglia di rifare un trio tipo Anonima Sound. Io dissi: “Se mi date fiducia io tiro fuori la batteria”, e così abbiamo fatto 13 tournée consecutive, quindi vuol dire che è andata bene.
Quindi eravate solo in tre, nessun tastierista?
Ci sono stati degli anni in cui ha suonato con noi Fabrizio Foschini, ma 7 tour li abbiamo fatti solo in trio. Una volta avevamo portato con noi un altro chitarrista, che ora vive in Olanda, Renzo Tortora detto Pitone, e anche quello è stato un quartetto notevole, però la dimensione che Ivan preferiva era quella in tre. Poi lui era un patito delle voci e sia io che Beppe cantavamo per cui era la situazione ideale. Ricordo un tour in cui Ivan aveva una fortissima laringite, e io cantavo da dietro per dare un po’ di spessore alla sua voce. Noi tre eravamo un sodalizio ben collaudato, eravamo fratelli più che amici… Avevamo un livello di affiatamento tale che lui avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa e noi gli saremmo andati dietro. Una volta a Busseto i gestori dei locali della piazza ubriacarono Ivan col nocino. Lui salì sul palco e cominciò a cantare “When I found myself in trouble, Mother Mary comes to me…”. Io e Beppe ci siamo guardati in faccia e abbiamo cominciato a suonare “Let it be” dei Beatles, poi ha attaccato “Blowin in the wind” di Bob Dylan e noi dietro a seguirlo… dopo un paio di canzoni abbiamo dovuto portarlo nel camerino e mettergli i polsi sotto l’acqua fredda per farlo riprendere!
Di che anni parliamo?
Io ho fatto la prima tournée con lui nel 1983. Ricordo come se fosse adesso la prima data, a Brindisi. Avevo una paura fottuta, ricominciare a suonare dopo tanti anni e con Ivan Graziani poi! Il palco era sul lungomare, c’erano diverse migliaia di persone, e ricordo che la camminata dal ristorante al palco fu una cosa tragica, come un condannato a morte che va verso il patibolo… finché non sono salito sul palco e ho dato il primo colpo di tamburo è stato un incubo. Poi sono andato in automatico…
Come mai avevi accantonato la batteria?
Successe perché suonavo in un’orchestra da ballo, insieme a mio fratello, e serviva un frontman. Avevo cominciato facendo il cantante/ batterista, ma in queste grandi sale da ballo – all’epoca si chiamavano “dancing” – occorreva qualcuno che stesse davanti, così il nostro impresario mi convinse e lasciai la batteria per fare solo il cantante. Andò avanti così per molti anni, finché non mi ruppi totalmente le palle e cambiai completamente strada. Suonavamo molto in Svizzera, e quando tornavamo in Italia trovavamo tutto cambiato, nessuno ci filava più, era già cominciata l’era delle discoteche. Le orchestre da ballo, che in Svizzera impazzavano, qui non erano più molto considerate, così nel 1981 aprii il ristorante. Un giorno, eravamo sono venuti da me Ivan e Beppe, e dopo pranzo mi fecero questa proposta oscena, così allentai molto il lavoro col ristorante, anche perché d’estate non lavoravamo molto. Era stato Beppe a convincere Ivan a venire a chiedermi di riprendere in mano le bacchette.
Ivan ha avuto in effetti sempre fior di batteristi, basti pensare a Walter Calloni.
Walter era bravissimo, l’ho conosciuto a Milano quando ero con gli Ibis. Lui ha inciso molti dischi con Ivan io invece ho suonato soprattutto dal vivo, in studio abbiamo fatto delle cose a casa sua, perché negli studi c’erano i produttori che ci segavano le gambe… non potevamo noi sbarbatelli da Forlì andare a Bologna o a Milano a portare via il lavoro ai turnisti, per cui fummo tagliati fuori completamente, ma ci sta che ognuno tiri l’acqua al suo mulino.
Però hai suonato anche in alcuni dei suoi dischi…
Sì, ma erano dischi praticamente fatti in casa. Il problema per esempio del disco registrato nel suo studio a Novafeltria, “Ivangarage”, è che non era stato poi mixato in uno studio serio. Lui ha voluto mixarlo lì, in casa, mentre invece secondo me avrebbe dovuto prendere tutto il materiale registrato e portarlo in uno studio Top. Purtroppo il disco non suona, è piatto, e questo è un grosso peccato. Glielo dissi “Vallo a mixare a Milano, a Londra o dove ti pare ma non qui!”, ma non mi ha dato ascolto purtroppo. A lui piaceva sperimentare coi suoni, registravamo la batteria nel bagno, la chitarra nel caminetto e cose così. Il fonico era molto bravo, lavorava per la RCA di Roma, un vero professionista – tanto che venne anche con noi in tournée – ma mancava al disco il salto finale, la rifinitura del suono. Mi dispiace molto perché “Ivangarage” è un bellissimo disco, uno dei suoi che preferisco. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel 1994: andai a Sanremo quando lui fece “Maledette malelingue” e gli dissi proprio prima che salisse sul palco che avrebbe avuto bisogno di un rinnovamento, di suonare con persone nuove, anche contro i miei interessi… ma purtroppo non ne ha avuto il tempo.
Chitarrista, fotografo, reporter, documentarista, non si contano i viaggi di Claudio Cardelli in tutta l’Asia e in particolare sulle zone himalayane, Tibet, India. Ha collaborato a lungo con la Rai per la quale ha realizzato una serie di lavori legati alla tradizione e alla cultura del mondo tibetano; è tra i fondatori dell’Associazione Italia-Tibet e ha curato e partecipato all’organizzazione in Italia di svariate mostre ed eventi a favore dei rifugiati tibetani così come a numerose visite in Italia del Dalai Lama. Nel 1997 insieme ai figli Ricky e Francesco ha formato i Rangzen (che in tibetano significa “indipendenza”), band dedicata alla musica degli anni ’60 e ’70. Ha conosciuto Ivan a metà degli anni 60 e la loro amicizia è durata per tutta la vita.
Te lo posso dire con precisione quando ho conosciuto Ivan: era l’ottobre del 1966 e avevo 16 anni. Da un anno circa suonavo la chitarra con i Log, un gruppo di Pesaro, e facevamo le prove nello scantinato di una villa Liberty di Pesaro. C’era un ragazzo che veniva sempre con noi, che ci aiutava a scaricare e caricare l’attrezzatura, un po’ un factotum (oggi si direbbe un “roadie”), Gianfranco Gigliotti detto Spippola, che studiava a Urbino e conosceva Ivan, che aveva messo su un trio, Ivan e i Saggi, con Walter Monacchi e Velio Gualazzi. Considera che parliamo del ’66, quando in Italia un gruppo composto di tre elementi non era neanche concepibile, perché la regola voleva che ci fossero una chitarra ritmica e una solista, oltre alla sezione ritmica. I riferimenti per i gruppi dell’epoca erano i Beatles, gli Shadows, i Rolling Stones, tutte band con 2 chitarre, e l’dea che questo ragazzo, questo Ivan facesse tutto da solo appariva incredibile. Capita che questo Spippola un giorno durante le prove dice “Domani viene a trovarvi Ivan Graziani, di Urbino” (in realtà Ivan era di Teramo ma studiava a Urbino). Chiediamo chi è e lui: “È uno bestiale, ha una voce della Madonna, e poi sentiste come suona la chitarra, fa tutto da solo…”. Il giorno dopo arriva questo Ivan mentre stiamo provando “Una ragazza in due” dei Giganti. Io avevo una chitarra Baronet con un piccolo amplificatore Meazzi, e Ivan, appena entrato, si guarda in giro con queste strane movenze che aveva e questa leggera gobbetta… Io ero uno spilungone alto e magro, e lui mi guarda dal basso e mi dice: “Ehi maestro, fammi vedere questa chitarra”. Me la prende dalle mani, alza il volume dell’amplificatore al massimo in modo che distorcesse, e comincia a suonare lasciandomi letteralmente di stucco, perché faceva delle cose che erano assolutamente fuori dai canoni: tirava le corde, ne suonava due alla volta, faceva dei bending (effetto di glissando, Ndr). Io, basito, resto quasi imbarazzato al confronto. Dopo lui fa un pezzo col nostro batterista e il nostro bassista che lo accompagnano in una improvvisazione, poi se ne va lasciandoci senza parole e quasi inebetiti per questa performance.

Di lì a poco Spippola mi dice che Ivan gli aveva chiesto se potevo prestargli l’amplificatore. Io ne avevo acquistato uno nuovo, un FBT, più grosso del Meazzi che suonava benissimo ma era troppo piccolo, e Ivan venne a trovarci nel mio garage dove ci eravamo trasferiti per fare le prove, portò via l’amplificatore e dopo qualche giorno me lo riportò chiedendomi quanto volevo. Gli dissi “Non lo so, fai tu”, lui mi diede 1.000 lire e mi disse “Ahò, mannaggia all’amicizia eh?” Io restai con queste 1.000 lire in mano, e ancora oggi mi restano sul gozzo… capisco che non avrei dovuto chiedergli niente, ma me le aveva offerte lui… E poi sai, a quell’età 1.000 lire mi facevano comodo. Da quel momento in avanti siamo diventati amici, Ci siamo incontrati/scontrati l’anno successivo al Torneo Davoli (una manifestazione canora nata nel 1966, aperta a gruppi e cantanti beat, Ndr) dove sia lui, con l’Anonima Sound, che noi ci qualificammo abbastanza bene, dopodiché lui ebbe il primo contratto discografico, incise il primo 45 giri “Fuori piove” che aveva “Parla tu” sul lato B ed entrò nelle grazie di Gilberto Amati, il proprietario dell’Altro Mondo di Rimini, e divenne una presenza costante del locale. Da lì partì la sua strada verso il successo, mentre noi restammo indietro, perché non potevamo intraprendere una carriera professionale per motivi di studio, familiari eccetera, mentre per lui era quello che voleva fare e che fece per tutta la vita. Ivan quindi abbandonò l’Anonima Sound ed ebbe un momento di disorientamento, diciamo, nel senso che non aveva un gruppo, così mise su una band con noi mi sembra nell’estate del 1971. Oltre a Ivan c’ero io, Gabriele Aiudi e Eolo Albani, tutti ragazzi di Novafeltria. Con questa formazione facemmo 4 o 5 date in Romagna, con un repertorio in parte composto dai brani che poi finiranno in “La città che io vorrei”, poi lui sposò Anna, che io conoscevo ancora prima di lui, da quando eravamo ragazzini. Anche Anna studiava a Urbino, dove si conobbero e sarà l’unico e grande amore della sua vita. Poi nel periodo del successo ci siamo persi un po’ di vista: lui stava a Milano dove lavorava con Battisti e ha cominciato a fare tutti quei dischi spettacolari che io però, sinceramente, non seguivo tanto. E questa è una delle mie gravi mancanze nei suoi confronti: io ero esclusivamente esterofilo dal punto di vista musicale, per me contavano solo l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Musica italiana ne ascoltavo davvero pochissima, qualcosa di Battisti ma davvero quasi niente. Negli anni ’60 era diverso, perché c’erano tutti questi gruppi italiani che facevano cover di brani inglesi, l’Equipe 84, i Dik Dik, i Corvi, i Rokes (che erano inglesi ma in effetti lavoravano in Italia, Ndr)… per cui negli anni ’70 avevo un po’ trascurato la produzione discografica di Ivan. Conoscevo gli album “I Lupi”, “Pigro”, ovviamente, ma era comunque musica che noi non facevamo, perché in quel periodo facevamo soprattutto West Coast, tipo Crosby, Stills, Nash & Young, per cui tutto da un’altra parte a livello musicale. Devo dirti che è stato ascoltando suo figlio Filippo dal vivo che mi sono reso conto della grandezza sia musicale che poetica delle canzoni di Ivan. Da ragazzo confesso che non mi ero reso conto che Ivan fosse così particolare, così fuori dagli schemi e soprattutto unico. Non era inseribile in nessuna categoria. Era un cantautore ma era anche un grande rocker, un chitarrista della Madonna ma anche un grande poeta. Si parla a proposito dei grandi compositori rock di “poetica degli accordi”: quando ascolti per esempio una canzone di Bob Dylan o di Ray Davies dei Kinks senti questi accordi che si insinuano nel cuore e nella mente, accordi che sono imprevedibili ma che sono perfetti nel momento in cui arrivano. Ecco, anche Ivan aveva questa capacità di comporre melodie su accordi che erano straordinari dal punto di vista dell’armonia, della consequenzialità uno rispetto all’altro, e io queste cose qua purtroppo le ho scoperte tardivamente. Quando lui era a casa a Novafeltria ci vedevamo spesso, veniva a casa mia, smanettavamo con le chitarre… ricordo che gli ho prestato un amplificatore per un mese e l’ha tenuto due anni! Quella volta non gliel’ho fatto pagare ma ho faticato per riaverlo, voleva comprarmelo… era un Vox AC30 degli anni 60 con un suono sconvolgente che adesso costerebbe 10.000 euro.

Ci sono alcune belle storie che riguardano le chitarre. Ivan ovviamente amava molto le chitarre, ne aveva tante, le cambiava, le massacrava, le spataccava (romagnolo per “le modificava”, Ndr), cose che oggi per il collezionismo diciamo ortodosso non sarebbero concepibili, ma lui aveva questa mania. Io avevo una Fender Telecaster che avevo venduto a un ragazzo di Novafeltria che l’aveva poi venduta a Ivan, che la usò durante le registrazioni di un album di Lucio Battisti. Gironzolando per la sala di incisione Battisti sente dei suoni che provengono da un altro studio e chiede chi è che suona. Gli dicono che è Ivan Graziani, lui entra in studio e dice: “Questa chitarra è favolosa”. Al che Ivan risponde: “No, non è la chitarra, sono io che suono così!” Comunque Battisti si impunta che vuole questa chitarra a tutti i costi, Ivan non gliela vuole dare, e alla fine arrivano a un accordo. Lucio gli dice: “Guarda, allora facciamo un cambio. Io ti do’ la chitarra che mi ha regalato Eric Clapton quando sono andato a Londra”. Detto per inciso questo fatto è documentato anche nelle biografie di Clapton; Battisti era andato a Londra perché lui seguiva molto la scena musicale inglese, ed Eric Clapton gli aveva regalato una Epiphone Casino Cherry. Ivan accetta lo scambio, e così oggi Filippo si ritrova una chitarra che è stata di Clapton, Battisti e Graziani… non male come pedigree!
Ivan soprattutto che chitarra suonava?
Mah, io devo dire che l’ho visto in mano con tutto: Gibson, Fender, Kramer… lui non aveva una predilezione, dipendeva da come si svegliava la mattina. Devi sapere poi che i chitarristi hanno un rapporto quasi carnale con le chitarre, spesso se le portano a letto, soprattutto quando sono nuove, appena arrivate, le prime notti te le porti a letto con te.
Quando vi siete riavvicinati?
Quando era in zona andavo comunque spesso a vedere i sui concerti. Lui aveva sempre dei musicisti straordinari, i suoi erano davvero dei bei live. Poi purtroppo un grande riavvicinamento c’è stato nella fase finale della sua vita. Abbiamo suonato insieme a Pesaro nel ’94 o nel ’95, in occasione di un raduno di vecchi gruppi musicali. Abbiamo fatto credo 4 brani, tutte cover di Beatles e cose simili, e con me e Ivan c’era Checco Marsella dei Giganti, suo cognato Gigi Bischi alla batteria e Gabriele Aiudi al basso. Ivan aveva già avuto un’avvisaglia della malattia che poi se lo sarebbe portato via, passava più tempo a Novafeltria e abbiamo cominciato a vederci più spesso. Qui cominciò la parte drammatica e molto triste degli ultimi mesi di Ivan, che aveva preso un appartamento in un residence a Rimini dove andavo tutti i giorni a trovarlo, passavamo delle ore a parlare e a suonare la chitarra. Lui ha suonato fino a poche settimane prima di morire. Lo accompagnai nel novembre del ’96 a Cavour, in Piemonte, per quello che fu il suo ultimo concerto, che fu drammaticamente colossale, perché Ivan, già malato, sul palco sembrava Enrico Toti che lancia la stampella come ultima arma rimasta. Io lo guardavo e non capivo come facesse, nelle sue condizioni, a suonare così. Se ne è andato poco dopo, e aveva appena 50 anni. Ricordo che una volta eravamo nel suo studio e stavamo strimpellando su due acustiche, e io gli dissi. “Tu Ivan però non hai mai fatto il botto. Lavori sempre, hai il tuo seguito però non hai sfondato”. Lui mi ha guardato e mi ha detto: “Maestrone – mi chiamava così – Ricordati che io suonerò fino a 50 anni”. Considera che quando hai 30 anni, 50 ti sembrano un traguardo lontanissimo, e questo lui intendeva.

Vorrei dire qualcosa anche su Filippo e dei suoi concerti in onore del padre. Quando Ivan è morto, Filippo era nella sua fase rap e rifiutava il modello paterno. Quando lui incise le sue ultime cose a Pesaro, volle coinvolgere Filippo in una canzone, “Porto Canale” (apparsa, con strumentazione aggiunta, sul disco postumo “Per sempre Ivan”, Ndr). Quando Ivan è morto Tommy già suonava la batteria con varie formazioni, Filippo invece venne a stare con la mamma in un appartamento a Rimini, e poiché aveva questa Telecaster del padre mi chiese se potevo insegnargli un po’ di accordi, perché lui proprio non sapeva dove mettere le mani. Quindi ho avuto questo ruolo, diciamo, di aprire le porte della chitarra a Filo, che prima non ne voleva sapere. Il talento poi indubbiamente c’era, ha studiato la chitarra, ha scoperto il mondo della musica vera, non l’hip-hop, e in pochissimo tempo è diventato molto bravo, e interpreta Ivan in maniera imbarazzante da quanto ha la stessa voce. Quindi io gli ho insegnato i primi rudimenti della chitarra e lui mi ha fatto riscoprire a conoscere come merita il repertorio del padre, che come ho detto avevo un po’ colpevolmente snobbato.
Io ho due chitarre di Ivan, una Rickembacker che mi ha regalato Anna quando lui se ne è andato – non so se fosse proprio una volontà di Ivan o se Anna me l’ha voluta dare per tutta l’amicizia che c’era stata – e l’altra è una Gretshc che ho acquistato perché Filippo un giorno mi ha chiamato dicendomi che vendevano una chitarra di suo padre a Forlì e mi ha detto che avrebbe avuto piacere che la prendessi io, piuttosto che qualcun altro.
Un nome che non ha bisogno di presentazioni, tra i protagonisti della musica italiana degli anni ’80 e ’90 (ma è uscito da poco un suo nuovo album, “L’uva e il vino“), ha collaborato all’album “Nove” e ha incrociato altre volte la strada di Ivan, come ci ha raccontato lui stesso.
Ho conosciuto Ivan perché entrambi facevamo parte della RCA, ma l’unica volta che abbiamo collaborato per un disco è stato quando io ho partecipato come vocalist a un suo album, “Nove”, nel 1984, che lui aveva registrato a Bologna col produttore Celso Valli. Poi ci siamo incontrati altre volte, per esempio quando lui ha fatto i Q Concert insieme a Ron e a Goran Kuzminac. Avremmo dovuto fare addirittura una tournée in Russia, io e lui; mi aveva chiamato perché c’era questa possibilità ma poi purtroppo non se ne fece nulla. Ci è capitato poi di condividere lo stesso palco, una volta a Perugia abbiamo suonato insieme sulla piazza principale. Nel 1983 facemmo parte della stessa squadra a “Premiatissima”, il primo varietà televisivo di successo di Mediaset, e ti racconto un aneddoto molto divertente legato a questa esperienza. Ci avevano messo dietro a uno schermo, una specie di quinta, dove non dovevamo muoverci, poi questa quinta sarebbe stata tolta e avrebbe svelato i cantanti che si celavano dietro. Bene, questa quinta era di una tela dove qualcuno avrebbe potuto disegnare, solo che dalla parte del pubblico si vedeva se qualcuno avesse disegnato qualcosa sull’altro lato perché era piuttosto sottile e trasparente. Ivan fece il disegno di una parte anatomica maschile a grandi dimensioni, convinto che dall’altra parte non si vedesse nulla. A un certo momento sentiamo il regista urlare incazzatissimo, fermare tutto e chiedere chi avesse fatto quel disegno. Naturalmente noi abbiamo fatto finta di niente, Ivan ha nascosto il gessetto che aveva usato e il regista non seppe mai chi era l’autore di quel capolavoro. Il regista era niente meno che Gino Landi, che era estremamente pignolo, ogni cosa doveva essere perfetta e a volte stavamo fino alle 5 di mattina a registrare, per cui puoi immaginare… nessuno disse chi era stato così ci prendemmo tutti un cazziatone generale!
Seguivi quello che faceva Ivan? Ti piaceva come musicista?
Mah vedi, in questo ambiente ognuno è concentrato su se stesso, pensa a fare le sue cose, e gli altri li ascolti un po’ di sfuggita, soprattutto perché non hai tempo. E poi c’è sempre il rischio che quando fai delle cose magari attingi da uno o dall’altro. La musica di Ivan l’ho sempre considerata molto molto originale, rispetto a quello che si faceva in Italia, perché aveva creato un suo modo di esprimersi. Sai che fare rock in Italia è molto difficile, perché abbiamo una lingua che non lo permette molto, invece lui era riuscito a fare sposare la chitarra elettrica e queste sonorità rock con la lingua italiana. Per me lui rimane un personaggio fuori del coro, che non ha avuto il successo che avrebbe meritato, ma che però ha lasciato un solco indelebile. Anche la sua morte è passata un po’ sottotono. Ci sono alcuni artisti, anche se non facciamo nomi, che magari hanno fatto pochissime cose ma che dopo la morte sono stati incensati, sono diventati dei miti, e questo non solo in Italia. Artisti che magari se avessero continuato la loro attività non sarebbero stati ricordati così tanto. Spesso una fine anticipata contribuisce a immortalare in qualche modo un cantante. Purtroppo, come è successo anche per Herbert Pagani per esempio, ci si dimentica facilmente di alcuni artisti di casa nostra. Noi siamo estremamente esterofili, quando muore qualcuno all’estero si sprecano fiumi di parole e ci si scorda degli artisti italiani, e questa è una cosa assurda. Questa esterofilia danneggia la nostra arte, perché abbiamo troppo poca considerazione degli artisti di casa nostra, a differenza per esempio dei francesi, che invece sostengono molto i propri compatrioti. È una sottovalutazione che ci frega tutti, perché se gli italiani fossero più intelligenti e meno divisi sapremmo farci valere di più. E poi, per quanto riguarda alcuni artisti che sono quasi dimenticati, c’è anche una questione culturale: solo chi appartiene a un certo ambito, anche politico, è degno di essere ricordato e anche questa è una cosa incomprensibile.
Ivan ha pagato senz’altro lo scotto di non essersi mai accodato a nessuna corrente politica, e dopo alcuni anni di successo la sua stella si è un po’ eclissata.
Sì, paghi lo scotto di non appartenere a qualcosa, della tua libertà. Io credo che l’arte non debba mai essere tirata per i capelli o per la giacca. Ognuno deve fare le cose che fa onestamente, e non dovrebbe mai essere partigiano… se uno fa dell’arte dovrebbe essere apprezzato per la sua arte e basta. Il fatto che in Italia venga sempre messa in mezzo la politica ti fa capire che purtroppo l’Italia non ha ancora superato il 1999, siamo ancora nel secolo scorso. Mettere delle etichette è davvero assurdo… ti piace una canzone? Bene, fermati lì… perché si deve sempre ghettizzare un artista? Sei dei nostri e quindi ti portiamo al successo, se invece sei una persona libera, che non appartiene a nessuno, allora te la facciamo pagare! E Ivan libero lo era senza dubbio.
Ho conosciuto Ivan agli inizi degli anni ’90. Stava registrando l’album “Cicli e tricicli” con Claudio Fabi, e Nazzareno Nazziconi, che era il mio produttore, stava collaborando con Claudio anche per Niccolò (Fabi, il figlio di Claudio, Ndr), e un giorno Claudio mi ha detto “Bisogna che un giorno ti porto con me da Ivan che magari ti scrive una bella canzone”. Devo premettere che io ero innamorata di lui fin da quando avevo 14 anni e ascoltai nei primi anni 80 “Firenze”… ero innamorata persa di questa voce particolarissima. Ogni volta che le radio passavano quella canzone io rimanevo lì a bocca aperta, mi si struggeva il cuore ed è sempre rimasta la mia preferita a livello affettivo. Quindi quando Claudio mi disse che mi portava da Ivan Graziani a conoscerlo, per me è stato come se mi avesse detto che mi portava da Dio, perché per me lui era un riferimento per la musica d’autore italiana. In casa mia non si frequentava molto la musica, non ci sono musicisti né ascoltatori di musica. L’unica cantante era mia nonna che cantava nelle aie dei contadini, per cui la musica non entrava proprio a casa nostra. Quando mi portarono a casa sua e lo conobbi ero emozionatissima, considera che ero una ragazzina, avevo da poco compiuto 20 anni. Lui era molto simpatico, ed è stata una giornata bellissima: ci siamo messi in studio e quel pomeriggio lui mi scrisse la melodia di due canzoni, di cui poi ho scritto il testo. Con Claudio le abbiamo registrate in modo un po’ artigianale, giusto per capire che cosa ne poteva venire fuori, e quelle sono rimaste le uniche registrazioni. In effetti erano cose talmente diverse da quelle che io stavo facendo in quel momento, che non ci azzeccavano niente quando ho fatto il mio primo album “Non siamo eroi” dopo il Festival di Sanremo del ’94. Non sapevamo come infilarle nel disco perché erano nello stile di Ivan, così le abbiamo accantonate dicendoci “Vabbè, per questa volta no”, ma è stato poi in effetti sempre difficile, perché il mio stile all’epoca era molto differente. Anche la casa discografica, nonostante il fatto che avere due canzoni di Ivan Graziani sarebbe stata una bella cosa, diceva sempre “Eh, ma questi due pezzi sono fuori linea con tutto il resto” e quindi non si è mai riusciti a inserirli in un mio disco. Poi io mi sono allontanata dalla musica e mi sono dedicata ad altro… pensa che dal 1996 ho fatto un album 10 anni dopo, nel 2006, e così quelle due canzoni sono rimaste lì, come due regali di Ivan privati.
Però è rimasto poi questo legame affettivo con Ivan. Ho conosciuto sua moglie Anna, ogni tanto ci si vedeva con Claudio per delle cene, per cui si era creato anche un piccolo rapporto di amicizia… dico piccolo perché ci si vedeva poco, non era una frequentazione fitta, però stavamo bene insieme, passavamo delle belle serate cantando. Ricordo che quando conobbi Anna io, che ero una ragazzina, sognavo di poter diventare una donna così affascinante, e questo rapporto con lei si è mantenuto anche quando Ivan se ne è andato. Abbiamo collaborato insieme, io nei miei spettacoli facevo un medley dedicato a Ivan, composto di sei pezzettini delle sue canzoni. Quando Filippo (Graziani, il figlio di Ivan, Ndr), che faceva questo spettacolo portando in giro le canzoni del padre insieme a Tommy (l’altro figlio di Ivan, Ndr), cominciò a volersi dedicare alla sua musica e si pose il problema di come portare avanti quel progetto, mi arrivò una chiamata di Anna che mi chiese se avevo piacere di farlo io. Sapeva che amavo Ivan e mi aveva sentito cantarlo, e la cosa nacque un po’ così come un esperimento, perché lei stessa mi diceva “No lo so se faccio bene, perché affidare a una voce femminile le canzoni di un uomo è un po strano, ma quando io ti sento cantare le canzoni di Ivan mi struggo, per cui magari piace anche agli altri”. Io le ho detto subito di sì, anche se avevo smesso di esibirmi dal vivo non l’ho fatta neanche finire di parlare, e così ci siamo imbarcati in questa avventura. Abbiamo cominciato a fare le prove e anche Tommy, che non mi aveva mai sentito cantare le canzoni del papà, è rimasto molto colpito. Diceva “Si crea una magia che non avrei mai pensato. Quando la mamma me l’ha detto mi sembrava una follia, e invece aveva ragione!” E questa è stata poi anche la reazione del pubblico, dei fan di Ivan: hanno accettato con un amore incredibile questa cosa, forse ancora di più che se le avesse cantate un uomo. Con un cantante uomo si sarebbero fatti paragoni, invece con una voce femminile si crea un altro mondo, ugualmente suggestivo, che però non è paragonabile. È stata un’esperienza bellissima. Quando cantavo sul palco sentivo soprattutto amore, quello vero, quello che unisce le persone nel profondo, e mi sono sentita davvero onorata. E poi lui metteva insieme quella che è la mia anima rock, col fatto che io sono però anche dolcissima, una romanticona, ed è una cosa rara… io non trovo un altro artista in Italia che metta insieme così bene queste due anime. O sei rock, e di romanticismo non se ne parla, o sei melenso, e lui melenso non lo era mai.
Concordo con te che la tua voce è davvero perfetta per le canzoni di Ivan. Io non sapevo di questo progetto e quando un paio di anni fa ti ho vista esibirti con le tue canzoni sono rimasto affascinato. In effetti per un uomo risulta molto difficile arrivare a certe note senza andare sul falsetto, ma Ivan non cantava in falsetto, bensì in una tonalità che è indubbiamente femminile.
Infatti sono canzoni scritte da un uomo che io posso cantare però in tonalità originale. E capivo che il pubblico era stupito piacevolmente. Con Anna avevamo anche pensato di fare un album con le canzoni di Ivan, e quando si parlava di questo progetto avevo pensato che avremmo potuto inserire anche quei due inediti, però non sono stati mai depositati alla SIAE, e con la burocrazia diventava tutto complicato… Poi alla fine è rimasto tutto così solo a parole, ma a me piacerebbe tanto fare un album con le sue canzoni. Chissà che non lo faccia prima o poi… Adesso sto producendo solo dei singoli e sono tutti dedicati a dei temi sociali, però questa cosa di incidere le canzoni di Ivan Graziani la vedo come un dono, ma non è facile: devi chiamare un arrangiatore, i musicisti, e investire, e forse si deve anche al fatto che oggi i dischi si vendono poco che non si è andati avanti con quel progetto.
Orgogliosamente marchigiano, Nazzareno Nazziconi da oltre 30 anni si occupa di produzione di spettacoli e organizzazione eventi. Nel management ha curato, oltre a Ivan, di cui era anche buon amico, tra gli altri Ivan Cattaneo, Pierangelo Bertoli e Camaleonti. Come promoter ha organizzato eventi con i più grossi nomi della musica italiana e internazionale: Sting, Vasco Rossi, Renato Zero, Antonello Venditti, Eros Ramazzotti, Gianni Morandi, Biagio Antonacci e tanti altri. In ambito discografico ha portato più volte artisti a Sanremo, Castrocaro, Festivalbar e a tante altre manifestazioni. Da oltre 20 anni gestisce l’Agenzia di spettacoli Anteros Produzioni
Faccio questo lavoro da 35 anni e gestisco diversi artisti. Ho visto Ivan le prime volte all’Altro Mondo di Rimini, quando ero ancora un ragazzino. Fu per mezzo di Claudio Fabi che lo conobbi per alcuni brani che avrebbe dovuto scrivere per Lighea, che all’epoca stavo producendo, e da lì è partita una specie di collaborazione e gli chiesi se gli andava di venire a lavorare con me. Eravamo agli inizi degli anni ’90, ricordo che era appena uscito l’album “Cicli e tricicli”. Abbiamo fatto una tournée invernale molto bella in cui abbiamo girato tutta l’Italia, seguita poi da una tournée estiva, e si è sviluppata subito una forte amicizia, anche con la moglie e i figli. Poi sai com’è, il mio lavoro è fatto di artisti che vanno e che vengono, io all’epoca facevo le selezioni per Castrocaro e per Sanremo con Ravera, ma ricordo che con Ivan ci divertivamo molto. Gli piaceva molto scherzare, era un burlone. Una volta mi chiamò la vigilia di Natale per andare da Don Gelmini a registrare una trasmissione in diretta per la TV. Mi chiamò la mattina per chiedermi se lo accompagnavo. C’era la neve altissima e gli dissi “Non farmi venire a Novafeltria per andare a Terni a quest’ora!”. Oltre tutto avevo mia figlia che era piccola, ma lui insistette così tanto che alla fine dovetti accettare e andammo. Don Mazzi aveva un centro che ospitava molti ragazzi tossicodipendenti, di cui molti sieropositivi, e quando andiamo a mangiare Ivan comincia a dirmi che chissà quanti germi c’erano in giro, e le molecole ecc., allora poso la forchetta e sto per bere un bicchiere di vino, ma lui mi dice “Eh ma sai nel vino il virus si potrebbe fermare…”. Di fianco a noi c’erano Don Gelmini, medici, generali, di tutto, e a un certo punto lui comincia a schizzare vino dalla bocca e dal naso. Un altro esempio dei suoi scherzi riguarda un viaggio in aereo. Oggi prendo l’aereo anche 4 volte alla settimana ma allora era una delle prime volte, non è che avessi paura però c’era comunque un po’ di nervosismo. E allora lui comincia a dire “Sento uno strano rumore che viene dal motore… secondo me è qualche bullone che è saltato”. Era un burlone ma aveva anche un carattere difficile, sono sincero. Quando si incazzava con qualcuno non c’era modo di fermarlo. Una volta da Maurizio Costanzo vide che c’era un artista che non gli era simpatico e voleva a tutti i costi andare via, feci fatica a convincerlo a restare. Per fortuna che c’era sempre Anna dietro che riusciva a farlo ragionare… Lavorare con lui era facile ma anche difficile… ma vedi, tutti gli artisti sono così. Con lui bisognava stare attenti, ma non con me, il nostro rapporto era tranquillissimo, ma se trovava qualcosa che non gli andava poveri noi! In questo mestiere bisogna anche mediare… non nego che qualche volta mi veniva il mal di fegato!
Com’era il suo rapporto con altri esponenti della musica italiana?
Lui era molto buono, ma se c’era qualcuno che lo indispettiva, anche a volte senza un motivo preciso, ma perché vedeva in lui qualcosa di sbagliato, cominciava a punzecchiarlo di continuo. Per qualche anno la nostra collaborazione si è interrotta perché è andato con un altro manager, ma siamo sempre rimasti amici, anche con Anna, con cui abbiamo poi collaborato per tante cose.
Sono la linfa vitale dei cantanti o comunque di chiunque fa spettacolo. Nel caso di Ivan si tratta di un fenomeno che trascende l’essere “fans” nel vero senso del termine, anche perché Ivan ha sempre rifuggito da ogni forma di divismo, per assumere spesso la veste di amici, con uno scambio di affetto e di energia dal palco al pubblico e viceversa. Un affetto che non si è affievolito quando Ivan ci ha lasciato, ma che anzi si è rafforzato nel sentirsi uniti e partecipi di un’esperienza artistica e musicale che continua a vivere in chi lo ricorda, in chi ascolta le sue canzoni, scrive libri su di lui, organizza concerti, canta le sue canzoni, anima siti e pagine social, per cui mi è sembrato giusto lasciare uno spazio anche a loro per voce di Viller Ronchetti, emiliano, fan storico che da sempre si dà da fare per portare avanti il ricordo di Ivan, organizzando concerti ed eventi, e collaborando molto attivamente come amministratore coi gruppi Facebook “Fans club Ivan Graziani il Rock con gli occhiali rossi” (Creato da Simona Moretti ) e “Ivan Graziani forever” e con la pagina “Ivan Graziani la più grande rockstar italiana tutti i tempi” (Creati da Max D’ Agata).
VILLER RONCHETTI

La prima volta che ho conosciuto Ivan è stato nel 1979, ero in vacanza a Cattolica e ho visto dei manifesti che annunciavano un suo concerto a San Giovanni in Marignano (un paese vicino a Cattolica, Ndr). Nel pomeriggio siamo andati coi bimbi a fare un giro a San Giovanni, con l’idea di cenare sul posto e poi andare a vedere il concerto. Passeggiando per il paese abbiamo incontrato Ivan e Anna che passeggiavano, mi sono avvicinato e lui è stato gentilissimo. Gli ho detto “Non ti seguo da molto ma mi hai davvero fulminato”, così la sera dopo il concerto sono andato a salutarlo con mia moglie e i bambini, che erano piccoli. Quando ha visto mia moglie, che dimostrava meno dei suoi anni, e che avevamo già un figlio di 5 anni, ci ha guardato e ha detto: “Ma quando ca**o li avere fatti?”. Questo fu il mio primo incontro con Ivan, e da allora l’ho sempre seguito: ho visto 25 concerti col gruppo completo e uno in acustico. Io e mia moglie eravamo sempre in prima fila sotto il palco, e all’interno della copertina dell’album dal vivo “Parla tu” c’è un disegno del pubblico fatto da Ivan, e in prima fila c’è un tipo con gli occhiali e i baffi che abbraccia una ragazza. Una volta per telefono gli dissi che pensavo di essere io quel tipo, e lui mi rispose: “E chi cavolo vuoi che sia, sei sempre lì davanti!”. Una volta, a Carpi, come al solito siamo andati dopo il concerto a salutarlo e a scambiare due chiacchiere con Anna mentre Ivan era andato nel camerino a rinfrescarsi un po’. Quando è uscito indossava delle scarpe color nocciola e mia figlia, che all’epoca doveva avere 5 anni, disse: “Guarda mamma, ha le scarpe color cacchina!” Ivan si è girato verso Anna e le ha detto: “Te l’avevo detto che non erano adatte!”
L’idea di creare un fan club è nata dopo la morte di Ivan?
Veramente il primissimo fan club fu fondato da una ragazza che adesso vive a Londra. Abbiamo collaborato per un po’, ci si vedeva a casa di Anna, e in queste occasioni ho conosciuto molta gente tra cui Roberto (Romanelli, Ndr). Poi ci si è un po’ persi di vista fino a quando organizzammo il raduno a San Leo nel 2018, e lì sono stato inserito in diversi gruppi Facebook dedicati a Ivan, e sono quello che pubblica più di tutti, almeno una volta al giorno pubblico qualcosa, anche perché ho tantissimo materiale.
Secondo te può piacere ai ragazzi di oggi Ivan Graziani?
Io dico di sì, soprattutto ai ragazzi che vogliono comporre della musica. Chi prende in mano la chitarra, chi vuole davvero imparare a suonarla può assolutamente apprezzare le sue canzoni. Ovviamente se parliamo di computer o cose del genere il discorso è diverso… Quando faccio ascoltare Ivan ha dei musicisti giovani viene sempre apprezzato, e spesso dicono che è difficile, e questa mi sembra comunque una cosa positiva.