Pierrot Lunaire – Conversando con Arturo Stalteri

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Abbiamo già parlato dell’esaltante esperienza del Progressive Rock italiano in occasione dell’uscita del nuovo, inaspettato, album di uno dei gruppi storici, la Reale Accademia di Musica. Ma quel genere musicale – ammesso che le etichette in campo artistico abbiano un senso – si declinò in tante forme, spesso molto diverse una dall’altra. Accanto alla spesso sterile imitazione di modelli provenienti dall’Inghilterra, ci furono però anche gruppi che da oltre Manica presero ispirazione per creare qualcosa di originale e di peculiarmente italiano. Ci furono poi artisti che solo per comodità vennero inseriti nel mare magnum del Progressive Rock, anche se a ben vedere se ne distaccavano decisamente. È il caso dei Pierrot Lunaire, un gruppo emerso con la “seconda ondata” del cosiddetto Progressive (il loro primo disco uscì infatti nel novembre del 1974), e la cui musica ben poco aveva a che fare con Premiata Forneria Marconi o Banco del Mutuo Soccorso. Uscito per la pionieristica etichetta It (affiliata alla RCA e “responsabile” dell’esordio di tanti artisti italiani, soprattutto cantautori) il primo disco dei Pierrot Lunaire spiazza chi è alla ricerca di modi e stilemi ormai standardizzati: intanto non c’è la batteria (se non in un paio di brani), e le atmosfere sono quasi totalmente acustiche, con una forte impronta classica e anche folk. Quanto di più lontano possibile dagli Emerson Lake & Palmer! La formazione è composta da Gaio Chiocchio, voce, chitarre e tastiere, Arturo Stalteri, voce e tastiere, e Vincenzo Caporaletti, chitarre, basso, flauto e batteria. Il disco viene bene accolto dalla critica, almeno da quella più illuminata, ma le vendite non sono esaltanti e per il secondo album, “Gudrun“, la band decide di sparigliare le carte: esce dal gruppo Caporaletti ed entra il soprano gallese Jacqueline Derby, e la proposta musicale si fa più radicale, minimalista, vicina alla sperimentazione e ormai completamente svincolata dal Progressive. “Gudrun”, benché considerato da parte della critica – soprattutto posteriore – un piccolo capolavoro, commercialmente non si rivela certo un successo e decreta la fine prematura dei Pierrot Lunaire, che resteranno però nel cuore di tanti, e i loro dischi saranno ristampati più volte in CD.

La copertina del primo album del gruppo

La formazione originale dei Pierrot Lunaire

Abbiamo ripercorso la storia dei Pierrot Lunaire con una piacevole conversazione con Arturo Stalteri, persona di squisita disponibilità e gentilezza. Dopo l’esperienza giovanile col gruppo (quando uscì il primo album aveva 16 anni) Stalteri ha avuto una carriera lunga e densa di collaborazioni prestigiose, ha condotto molti programmi in RAI, ha inciso numerosi album di musica essenzialmente per pianoforte ed è spesso in giuria in concorsi pianistici nazionali ed internazionali.​ Riassumere in poche righe le sue esperienze musicali è inutile e riduttivo, per cui vi mando al suo sito ufficiale per approfondire la sua conoscenza.

I PIERROT LUNAIRE RACCONTATI DA ARTURO STALTERI

Con arturo Stalteri si potrebbe parlare di gran parte della musica contemporanea, da Philp Glass a David Sylvian a Brian Eno, ma come si dice è un’altra storia. Oggi con te vogliamo parlare soprattutto dell’esperienza dei Pierrot Lunaire, di come è nato questo strano gruppo senza batteria.

Pierrot Lunaire è nato da un caro amico che purtroppo ora non c’è più, Gaio Chiocchio. Come spesso capita cominciò un po’ per caso. Io e Gaio frequentavamo la stessa scuola (il Liceo Classico Tacito di Roma, ndr) e ogni tanto ci si incontrava. A fine anno si organizzava di solito un concerto in un teatro lì vicino, e ricordo che c’era Gaio con un trio che faceva musica molto rock, molto dura. Eravamo nel 1974. Io andai quella mattina a sentire questo gruppo e mi piacque tantissimo. I pezzi erano straordinari, bellissimi ed erano quasi tutti suoi, o forse ce n’era qualcuno scritto dal chitarrista, Paolo Gatti, un altro ragazzo bravissimo. Come dicevo mi piacque molto e visto che avevo un caro amico, che purtroppo è scomparso qualche mese fa, Michele Mondella, che è diventato poi un grande promoter di artisti come Lucio Dalla, Francesco De Gregori o Antonello Venditti, e che all’epoca era entrato in questa piccola etichetta, la It di Micocci, che era un po’ l’etichetta dei cantautori, ne parlai con Gaio. Gli dissi che era un peccato tenere questi pezzi nel cassetto e che potevo provare a chiamare Michele. Abbiamo così riarrangiato in fretta queste canzoni in maniera acustica, con pianoforte e chitarra, giusto per farglieli sentire, perché alla It c’era un pianoforte, e chiamai Mondella che molto gentilmente ci invitò per fargli ascoltare i pezzi, che gli piacquero molto. Disse che doveva parlarne con Micocci, perché lui in pratica era solo un talent scout. Detto fatto, li fece ascoltare a Micocci e la cosa veramente miracolosa fu che noi facemmo questo provino a maggio, e Micocci ne fu talmente convinto che a luglio ci prese lo studio per registrare il disco. Va detto che fu lui a inventare il nome, perché secondo lui noi eravamo molto decadenti. “Pierrot Lunaire” in realtà è un’opera di Schoenberg, che ovviamente è un tipo di musica molto diversa da quella che facevamo noi, almeno nel primo disco, però gli piaceva molto l’idea di queste poesie di Albert Giraud che Schoenberg aveva musicato, che erano molto decadenti. La nostra musica era in effetti un po’ decadente, e a noi il nome piacque. Poiché serviva un chitarrista/bassista con una certa tecnica, Gaio chiamò un suo amico d’infanzia, Vincenzo Caporaletti, e nacque così la formazione che inciderà il primo disco. Gaio era una sorta di jolly, suonava un po’ di tutto, mentre io ero un pianista, all’epoca frequentavo il Concervatorio dove mi sono diplomato 5 anni dopo. Vincenzo accettò subito e dopo un paio di mesi di prove entrammo in studio. Devo dire che Gaio è responsabile per almeno l’80% di quel disco, infatti puoi vedere che la firma è quasi sempre sua.

La scelta di non inserire un batterista nel gruppo venne quindi spontaneamente dal genere di canzoni.

Esatto. In realtà molti di quei pezzi erano nati, come ti ho detto, in una forma molto elettrica, con chitarra, basso e batteria, ma poi, avendoli rivisti in maniera acustica non abbiamo più avvertito la necessità di una batteria, a parte un paio di brani in cui è lo stesso Vincenzo a suonarla. Ma ti dico la verità: quel disco ha ormai più di 40 anni, ma se dovessi inciderlo adesso forse io gli darei una veste più pop, ci metterei una batteria e qualche altra tastiera.

Voglio farti una domanda provocatoria: non fu quindi una scelta voluta per differenziarsi dalla musica dell’epoca, o per fare una cosa di cui si dicesse che era diversa dalle altre?

Direi di no, nel senso che è venuto spontaneo, non ci è proprio venuto in mente. Avremmo anche potuto inserire la batteria, che come ti ho detto Vincenzo suonava, perché i pezzi non è che fossero molto virtuosistici, erano delle ballate in fondo… Sia io che Gaio amavamo molto i King Crimson, in cui la batteria era molto presente, io poi avevo una passione per Mike Oldfield, in cui invece all’epoca la batteria non c’era affatto, e Vincenzo ascoltava molto la musica classica, per cui non abbiamo proprio sentito questa esigenza. Ci sentivamo molto vicini ai Saint Just di Jenny Sorrenti, che se ci pensi bene erano un gruppo un po’ anomalo nel campo del progressive rock, si ispiravano alla musica francese del 700, erano molto acustici e usavano poco la batteria… noi eravamo più su quella linea piuttosto che Banco, Pfm e tutti quei gruppi che si ispiravano al rock inglese.

Oggi, leggendo gli articoli specializzati, i Pierrot Lunaire vengono inseriti nel Progressive Rock ma credo che sia solo una questione di comodità di etichette, perché avevate poco in comune con la PFM o con Le Orme.

Anche secondo me. I gruppi che hai citato avevano questa idea della suite, di pezzi molto lunghi ed elaborati,mentre noi facevamo delle canzoni. Anche i pezzi strumentali erano molto lineari, molto semplici. Va anche detto che il nostro primo disco uscì nel ’75, quando c’era già la seconda ondata del progressive italiano. Noi siamo arrivati un po’ dopo… eravamo troppo piccoli prima.

Col secondo disco, “Gudrun”, cambio di formazione e anche di prospettiva musicale.

Sì infatti. Vincenzo restava molto legato alla classica e anche al jazz e voleva fare delle cose in quel campo. Allora chiamammo questa cantante lirica inglese, Jacqueline Darby, che faceva proprio musica dodecafonica, per questo è cambiato poi anche il genere, che è diventato più radicale, più provocatorio.

E poi come mai lo scioglimento dopo solo due dischi?

Lo scioglimento ahimè è stata un po’ colpa mia. Pensa che avevamo già pronto il terzo disco, ma per me si avvicinava il diploma e stavo studiando 6-7 ore al giorno, e poi mi ero fissato con la musica classica. Mi ero convinto che il rock non facesse per me, che avrei dovuto diventare un pianista classico, e ho cominciato a essere sempre meno disponibile, finché un giorno ne parlai con Gaio. Lui disse che avrebbe continuato, sentiva il gruppo come una sua creatura cui teneva molto. Purtroppo però poi si è messo a fare il produttore per altri artisti e si è un po’ perso, tanto è vero che prima di morire, negli anni 90, mi aveva chiamato perché avrebbe voluto rimettere in piedi i Pierrot Lunaire. Stava scrivendo dei brani e aveva chiamato anche Vincenzo, poi però ha avuto un infarto e il progetto è rimasto nel cassetto. Devo anche dire che io non ero molto convinto, erano passati già 25 anni e mi sentivo ormai lontano da quell’esperienza. Mi dicevo: “Perché dobbiamo rimettere insieme un gruppo che ha avuto una sua storia?” Però penso che poi alla fine mi avrebbe convinto, perché Gaio ci credeva davvero tantissimo.

Ricordi com’era stato accolto il primo disco dalla critica?

L’accoglienza della critica fu ottima, le vendite furono invece abbastanza scarse. Ricordo che i primi ad ascoltare il disco ancora prima che uscisse furono Gino Castaldo, che poi divenne un importante giornalista musicale, e Dario Salvatori, e loro dissero “Il disco è splendido”, e Dario fu il primo su Ciao 2001 a scrivere: “Sta nascendo un nuovo gruppo di cui fra un po’ si sentirà molto parlare”. Poi facemmo un sacco di cose promozionali che oggi sono impensabili: andammo in Tv su Rai 1 e su Rai 2 e girammo tutti i programmi radio più commerciali, anche grazie a Michele Mondella che in questo era bravissimo. Sai, all’epoca era molto difficile incidere un disco, e quando arrivavi a farlo, a quel punto già avevi una sorta di lasciapassare per una promozione. Adesso si riesce a farlo con più facilità, il che per certi versi è meglio, però poi ti trovi disperso in un mare di proposte e se non incontri subito il gradimento del pubblico vieni rapidamente messo da parte. Negli anni 70 non era facile trovare un discografico che avesse il coraggio di investire su un nuovo gruppo. Noi abbiamo avuto la fortuna di trovare Vincenzo Micocci, anche perché la nostra proposta musicale non era delle più facili. Inoltre noi essendo solo in tre usavamo moltissime sovraincisioni, ognuno di noi suonava 3 o 4 strumenti e riprodurre la nostra musica dal vivo era quasi impossibile. Infatti noi facemmo 4 o 5 concerti in tutto, e anche quello ci ha un po’ penalizzato. Oggi coi computer è tutto molto più facile, ma noi avremmo dovuto prendere altri musicisti, e la It era un’etichetta piccola, di soldi non ce n’erano molti. Gli artisti che valevano di più passavano poi alla RCA, che era un po’ la casa madre, come Venditti, De Gregori, Rino Gaetano, o ad altre etichette come Gianni Togni. La It era un po’ una sorta di palestra. Anche noi dopo il primo disco stavamo per passare alla RCA, ma quando Melis, che era il direttore, ascoltò “Gudrun” si rifiutò di pubblicarlo perché si distaccava troppo dal concetto di “canzone”. Infatti il disco era pronto già nel 76 ma uscì un anno dopo.

Dopo la fine dei Pierrot Lunaire Chiocchio è rimasto nel mondo della musica pop – ricordiamo almeno la sua collaborazione con Amedeo Minghi – mentre tu hai intrapreso una strada diversa, pur continuando a collaborare ogni tanto con alcuni cantautori.

Sì, ma perché alla fine erano tutti amici. Io, dopo il mio primo disco “Andrè sulla luna”, mi sono dedicato dal 1979 al 1987 esclusivamente alla musica classica, mi sono perfezionato in pianoforte e si può dire che ho fatto quasi solo quello. Poi negli anni 90 mi è tornata la voglia di comporre, anche grazie all’incontro con l’etichetta Materiali Sonori, con la quale ho registrato poi forse i dischi più importanti, tra cui “Circles” in cui rielaboro delle composizioni di Philip Glass (lavoro che è stato approvato dallo stesso Glass, che lo ha incluso nella sua discografia ufficiale – ndr).

E poi il disco con le composizioni di Brian Eno

Però con lui è stato molto più difficile. Glass era venuto a Perugia, sono andato a incontrarlo e si è dimostrato subito disponibile, invece Brian ho dovuto andare a trovarlo addirittura a Innsbruck. Ricordo che andai in auto e tornai in piena notte. Tramite un’amica comune gli feci la proposta e lui mi disse di mandargli un fax con l’elenco di tutti i brani. Gli mandai questo fax e lui mi ha risposto un anno dopo, dicendo “Benissimo” come se ne avessimo parlato il giorno prima! Alla fine però anche lui è stato molto disponibile e non ha voluto ritoccare nulla (l’album è “CoolAugustMoon, from the music of Brian Eno, anche questo approvato e inserito nella propria discografia ufficiale dal musicista inglese – ndr).