Conversazione con Ivan Cattaneo, un artista completo refrattario alle etichette

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Prima di introdurre la piacevole conversazione avuta con Ivan Cattaneo è bene chiarire subito una cosa: qui non si parlerà di reality, di Grande Fratello ecc. Scordatevi le ultime apparizioni televisive di Ivan, quello non è l’Artista di cui vogliamo parlare. E, si badi bene, ho detto “artista” e non cantautore, musicista o cantante, perché Ivan Cattaneo è davvero un artista a tutto tondo, a partire dalla pittura, suo primo amore mai abbandonato da quando uscì dal Liceo Artistico, e che troverà un naturale sbocco nella creazione delle copertine dei suoi album, fino alla dimensione attuale in cui la sua attività pittorica è forse predominante, con apprezzate mostre in tutta Italia. Nell’ottobre del 2004 il critico d’arte e giornalista Fortunato Orazio Signorello lo ha inserito, per la prima volta, nell’Annuario d’Arte Moderna. E poi, ovviamente, c’è il musicista Ivan Cattaneo, sotto molti aspetti un innovatore, uno sperimentatore, uno dei primi (e pochi) cantautori italiani a non fare mistero della sua omosessualità,  che purtroppo ha dovuto pagare lo scotto dell’enorme successo dell’operazione-revival di “2060 Italian Graffiati” e di “Bandiera Gialla“, che se gli hanno dato quella visibilità presso il grosso pubblico che gli era sempre mancata, al tempo stesso lo hanno imprigionato in un’immagine di “cantante di revival” che certo gli è sempre stata stretta e non rende giustizia a quella che è la sua “vera” musica, come ci racconterà del resto lui stesso. Ivan ci ha parlato dei suoi dischi, delle sue passioni, degli incontri con mostri sacri della musica italiana, del successo e anche delle delusioni e delle frustrazioni che ha dovuto affrontare, con sincerità e passione che hanno trasformato un’intervista in una piacevolissima chiacchierata in cui, partendo dai suoi dischi, abbiamo parlato di tante altre cose.

1978 – Un giovanissimo Ivan con Anna Oxa, per cui ideò il look punk per il suo esordio al Festival di Sanremo

“Superivan”, album del 1979 realizzato con la Premiata Forneria Marconi

Parlando di musica italiana mi sembra che non si possa prescindere da certe figure che negli anni ’70 hanno permesso a tanti artisti di emergere. Penso a nomi come Nanni Ricordi, Vincenzo Micocci o Ennio Melis.

Certo, Melis era una persona molto molto intelligente. Era stato tra l’altro segretario di Pio XI, tanto per capire la caratura del personaggio. Senza di lui non ci sarebbe stato Lucio Dalla per esempio. Ricordo che lo prendevamo sempre in giro perché si ostinava a produrre dischi non non vendevano, per esempio ha fatto fare vari dischi a Renzo Zenobi, che non ha mai venduto granché. Ha fatto la stessa cosa con Dalla finché nel 1979 finalmente, il disco intitolato proprio “Lucio Dalla” ha avuto un grande successo. Lo ricordo bene perché fu presentato insieme al mio “Superivan”, e da lì Dalla è esploso.

Era un’epoca in cui i di discografici avevano il coraggio di osare, al limite anche rimettendoci.

Sì è vero, che bello. Oggi o va la prima o sei finito, e purtroppo con questa politica non può nascere niente perché le cose nuove nascono anche da un po’ di sperimentazione. Anche il pubblico deve farsi l’orecchio su delle cose nuove. Senza dei periodi di prova in cui devi piacere al palato del pubblico non ci sarebbero stati i Kraftwerk o David Bowie o Prince… tutta la musica più all’avanguardia non sarebbe nata. Pensa agli Area, se non ci fosse stato un Gianni Sassi, perché dietro a questa musica c’è stato chi ha creduto nell’artista. Oggi non ci sono più queste figure, oggi si punta tutto sui talent che sono improntati su un concetto sbagliato di arte, solo sulla tecnica e sulla qualità della voce. È vero, sanno tutti cantare benissimo, ma cantano tutti la stessa canzone, non c’è nessuna variante. E poi hanno anche torto, perché a livello commerciale se ci pensi quelli che hanno più successo sono quelli che non sanno cantare, non almeno in senso stretto. Pensa a Jovanotti, per esempio, o guardando più indietro Guccini o Dylan, non è che siano bravi cantanti no? È inquietante pensare che oggi un Lucio Battisti sarebbe subito eliminato in un Talent. Nanni Ricordi mi diceva che è stato lui a insistere perché Battisti cantasse. Lucio agli inizi scriveva solo canzoni per altri, ma Nanni riteneva, e aveva ragione, che anche se non era un cantante eccezionale cantava le sue canzoni in modo molto personale. Ha insistito e ha avuto ragione, ma in un talent non avrebbe avuto nessuna chance. Lì non ti lasciano suonare il tuo strumento, non ti lasciano proporre le tue cose perché sono programmi che hanno il problema degli ascolti e che devono sottostare solo all’audience.

Tu come sei cresciuto musicalmente? Con quali nomi di riferimento?

Ma vedi, io sono cresciuto con tanti artisti, ma poi ho sempre fatto di testa mia. Anche la chitarra ho imparato a suonarla da autodidatta. Ai tempi del liceo artistico, da ragazzino, facevo blues, molto John Mayall e poi naturalmente i Beatles e i Rolling Stones, ma non ho mai suonato i loro pezzi, cercavo di prendere degli spunti per poi fare delle cose mie. A guardare la cosa adesso se ci pensi è stranissimo pensare che una persona come me, che non ha mai cercato di imitare gli altri o rifare i loro pezzi, alla fine ha avuto un successo clamoroso facendo proprio quello, diventando famoso facendo delle cover. Io sono schizofrenico e assurdo in quello… sono nato negli anni 70 come cantautore, e sono diventato famoso negli anni 80 con pezzi degli anni 60! Però grazie a questo ho dimostrato di essere anche un interprete valido, e ho lanciato questo filone, perché fino all’81 in nessuna trasmissione televisiva, per esempio, si faceva revival. Le canzoni degli anni 60 come “I Watussi” o “Il Geghegè” erano dimenticate, non si ascoltavano più, non c’era il culto dell’archeologia moderna, quello è venuto fuori dopo.

Non credi che oggi si vada a riscoprire cose vecchie perché la musica di oggi offre meno stimoli?

Ma no, io non credo. Mi sembra che anche oggi ci siano delle cose valide. È chiaro però che bisogna andarle e cercare, oggi non si ha voglia di rischiare più di tanto per cui è più difficile che nascano delle cose veramente nuove, però c’è qualcosa… per esempio questo Young Signorino, sembra un trapper però fa delle cose interessanti, e come lui ce ne sono altri. Poi è indubbio che c’è anche tanta robaccia, tutte queste cose con l’autotune in continuazione. E i talent non aiutano, anche perché fanno delle false promesse. Ora ce n’è un altro che si chiama “Future Legend”, cioè: tu diventerai la leggenda del futuro. Dovrebbero mettere in prigione queste persone che fanno promesse così, danno l’illusione a dei ragazzini che diventeranno le leggende del futuro, quando poi sanno benissimo che da questi talent escono poi pochissime persone. I talent, e anche i reality, sono quella cosa per cui finché stai dentro al format televisivo sei famosissimo, però appena ne esci non succede più niente. Prima avevi chi aveva già scritto le canzoni, che erano già famose, avevi Luca Tommassini (coreografo di “Amici di Maria De Filippi”, ndr) che ti faceva delle bellissime coreografie, l’altro ti faceva i costumi, quell’altro le scenografie ecc. Appena tu esci non hai più tutte queste cose, e se non sei capace di creare qualcosa da solo non succede niente. Noi della nostra generazione facevamo tutto da soli. Io, Renato Zero, Patty Pravo, la Rettore, la Bertè e tanti altri ci arrangiavamo a fare quasi tutto da soli.

Tornando alla tua musica, partirei da “Superivan” (1979) che è un po’ il disco che ti ha sdoganato presso il grosso pubblico. Da quel disco hai smesso di essere l’artista di nicchia che faceva musica strana e d’avanguardia, ma sei diventato un artista “pop”, anche grazie alla PFM che ha suonato nel disco.

Sì, nelle presentazioni dell’album scrivevo che dalla sperimentazione ero passato alla canzone vera e propria, secondo me comunque in maniera molto nobile perché accompagnato dalla PFM, e con un grande arrangiatore come Roberto Colombo. Non dimentichiamo che dopo quell’esperimento con me la PFM e Roberto Colombo hanno cominciato a lavorare con Fabrizio De Andrè. Una sera Fabrizio è venuto in sala, ha visto come lavoravamo e le cose che stavamo facendo. Ricordo che a un certo punto io ero molto stanco, e mi sono sfogato con lui dicendo che ero un po’ sfiduciato, e lui mi disse: “Ma no, tu sei uno bravo, non puoi permetterti di essere stanco!”. In studio c’era anche Nanni Ricordi e mi prendevano un po’ in giro, tipo “È un ragazzino ed è già stanco!”, quindi mi ha incoraggiato. Poi ha preso la PFM e Colombo e ha fatto il tour e il disco.

Di chi è stata l’idea di usare la PFM nel disco?

L’idea non è stata mia ovviamente ma di Roberto Colombo, che ha messo insieme il gruppo come arrangiatore e coordinatore, e lo stesso ha poi fatto con De Andrè. Io però, come avevo anche detto a Colombo, ho sempre apprezzato di più De Andrè con chitarra e voce. Per esempio “Il pescatore” non mi piace fatto con la Pfm, troppo barocco. Secondo me artisti come Dylan o Guccini rendono di più solo con chitarra e voce, non hanno bisogno di altre sovrastrutture.

Dal punto di vista musicale tu avevi voce in capitolo per quanto riguarda gli arrangiamenti?

Assolutamente. Io avevo delle idee ben precise riguardo agli arrangiamenti. Ricordo che una volta avevo criticato una sezione di fiati dicendo che mi sembrava un brano di liscio, e Roberto Colombo mi prese da parte e mi disse “Se devi farmi delle osservazioni non me le fare davanti agli altri!” Allora Colombo era un po’ alle prime armi, i primi arrangiamenti li ha fatti con me, poi ha lavorato coi Matia Bazar, con Miguel Bosè e tanti altri, ma il primo l’ha fatto con me. Molte volte si litigava, perché avevo delle idee precise sugli arrangiamenti. Per esempio non volevo degli assoli di chitarra troppo rock, che a me non piacevano. A me piaceva molto la musica elettronica per esempio, e cercavo di spingerlo in quella direzione.

A “Superivan” seguì nel 1980 “Urlo”, prodotto da Tony Mimms, che aveva lavorato con De Andrè, Baglioni, Mia Martini e tanti altri, e che contiene quello che forse è il tuo unico singolo davvero di successo, “Polisex.

Polisex” è nata in maniera molto strana. Era di moda in quel periodo apparire un po’ trasgressivi nei testi: Patty Pravo che diceva che faceva l’amore con uomini e donne, Renato Zero che faceva l’amore a tre in “Triangolo”, e così per non essere da meno io feci “Polisex” per intendere la sessualità multipla… era molto hippy, come l’amore cosmico, totale, senza gelosia e senza limiti, e di questo in fondo parla “Polisex”. Dove dice “il corpo macchina” intendevo che il corpo è una macchina che va sperimentata in tutti i modi possibili… era tutto un po’ idealistico. Non era il sesso di “Pensiero stupendo” di Patty Pravo che era un po’ lubrico, il mio era molto più consapevole. Era di chi si vuole aprire a tutto e quindi è un “Polisex”, era quasi una cosa vicina al polimorfismo freudiano. La musica è nata una domenica pomeriggio. All’epoca vivevo con Roberto Colombo, ma ognuno aveva i suoi giri, e casa mia capitava sempre molta gente. Una domenica pomeriggio, appunto, sono venuti Faust’o e gli Incesti, che erano fratello e sorella, forse il primo gruppo punk italiano, e a un certo punto ho preso la chitarra e ho improvvisato una cosa, una melodia. Me la sono appuntata e l’ho messa via, non ci ho pensato più. L’ho ripresa poi dopo qualche giorno ed è nata “Polisex”. L’incisione però è stata un grande problema, perché la canzone è nata con l’arrangiamento di Tony Mimms, che era meraviglioso, però a un certo punto ci eravamo bloccati, non trovavamo una soluzione al fatto che non ha un vero e proprio ritornello. Ha questa frase che sembra quasi una conclusione perché non è una canzone nata a tavolino, ma nata spontaneamente, e allora Pino Vicari (il tecnico del suono, ndr) disse “Ma perché invece di fare come tutti che quando arriva il ritornello sparano tutte le bombe a mano, i fiati, i violini, gli stacchi di batteria ecc. non facciamo un’operazione di sottrazione? Togliamo tutto invece di aggiungere” e infatti se ascolti il pezzo ti accorgi che a un certo punto resta solo la ritmica, ed è stata una cosa molto intelligente. “Polisex” non è una canzone commerciale, se vogliamo, e non era facile da eseguire dal vivo. Per esempio ci sono 14 sovrapposizioni della mia voce…

A proposito della tua voce, all’epoca arrivavi a note altissime e avevi fatto del falsetto una delle tue caratteristiche. Oggi è cambiato qualcosa nel tuo modo di cantare?

Dal vivo canto ancora “Polisex” e dove ci vuole il falsetto lo faccio ancora, ma certo adesso il mio modo di cantare è cambiato. Anche all’epoca ricordo che c’era chi mi criticava perché usavo molto il falsetto e rischiavo di sembrare, dicevano, I Cugini di Campagna… Lucio Dalla invece mi ha sempre difeso, i miei esperimenti con la voce gli piacevano, anche lui era uno che amava sperimentare, anche se poi ha avuto successo con cose più commerciali. Ricordo che invece Renzo Zenobi, che era suo grande amico, mi prendeva in giro dicendo “eh, ma lui canta sempre così” (con una vocina acuta in falsetto, ndr). Nanni Ricordi non si permetteva di intromettersi nelle scelte di un artista, era sempre molto rispettoso, mentre molti vicino a lui invece storcevano il naso davanti al mio modo di cantare. Ricordo che una volta andai a trovare Lucio Battisti ad Anzano del Parco, e lui mi accolse con in mano addirittura il mio primo album, “UOAEI”. Io rimasi di stucco, pensai: Lucio Battisti col mio album? Lui scherzando mi disse “Non per te, per il batterista perché lo voglio usare, è bravissimo”. Si trattava di Walter Calloni, che era giovanissimo, e Lucio era talmente innamorato di lui che chiamò l’album addirittura Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera”. Calloni era bravissimo… pensa che quell’album era nato così: io suonavo la chitarra da solo e cantavo, e lui si è aggiunto solo dopo con la batteria, e Battisti era impazzito per questa cosa. Ricordo che gli dissi che forse avrei dovuto smettere di cantare in falsetto, ma lui mi disse: “E perché? Devi cantare come ti senti di cantare tu, e basta. Questo disco è straordinario…” e poi aggiunse: “Più per il batterista che per te ovviamente!” Era un tipo molto simpatico…

Urlo” ebbe successo commerciale?

Beh, a livello di critica sì, come anche per tutti i miei album precedenti. Ricordo una recensione di Mangiarotti su La Repubblica che scrisse “È nata la nuova star del rock italiano”. Anche la confezione era particolare, le copertine erano fatte tutte da me, avevo la possibilità di sfogarmi. A livello di successo commerciale invece quello non l’ho avuto con le mie canzoni, purtroppo.

Arriviamo al 1981 e a “2060 Italian Graffiati”. L’idea venne a te o dai discografici?

L’idea venne a me una notte di Capodanno. Ero andato a Parigi a partecipare a una rassegna rock… ricordo che c’erano i Blondie e alcuni gruppi francesi. Dopo il concerto mi hanno portato in una Boite, sai quelle discoteche un po’ underground, e ricordo che all’interno c’erano tutti i ragazzi e ragazze vestiti anni 50, ragazzi vestiti alla Elvis Presley, coi ciuffi a banana, i risvolti nel jeans, ed era una cosa che non avevo mai visto. Anche la musica era un po’ rockabilly e rimasi sconvolto. Tornato in Italia sono andato dalla Caselli (Caterina, ndr) e le ho detto “Ma sai che mi piacerebbe inserire nell’album nuovo una o due canzoni degli anni 60, per esempio Nessuno mi può giudicare…” Per lei era un invito a nozze, ovviamente, visto che era una delle sue canzoni. Inoltre proprio in quel periodo Paolo Giaccio stava ideando Mr. Fantasy (mitico programma TV condotto da Carlo Massarini, ndr) e voleva creare i primi videoclip per la trasmissione, e anche lui trovò che l’idea era bellissima e mi disse “Facciamo 12 canzoni revival e le rilanciamo nella trasmissione”. Io dissi che andava bene, ma che non avevo comunque intenzione di fare un disco di revival. Poi invece a livello televisivo ebbe un successo clamoroso e la Caselli disse “Abbiamo già tutto il materiale, facciamo uscire anche il disco”, così nacque “Italian Graffiati”. 860.000 copie, vendute, tanto per capirci.

E da un momento all’altro il nome di Ivan Cattaneo era sulla bocca di tutti, anche di chi prima non ti conosceva.

Eh sì, fu una grande cosa ma è stata anche la mia rovina. Nanni Ricordi si arrabbiò molto, mi disse “Non dovevi farlo, potevi diventare un Vasco Rossi”, e ricordo che rispondevo con una battuta: “Potevo diventare un Vasco Rossi o rimanere un Alberto Fortis!” (ride). Io però sono sempre stato fiducioso nel mio talento, per cui mi dicevo che Ok, avevo fatto questa cosa come un gioco, ma poi avrei ripreso a fare le mie cose. In effetti ho fatto così ma il problema è che quando dai un imprinting alla massa questa poi si abitua, e quando sono tornato a proporre la mia musica, che non è certo facile, questa si scontrava con la notorietà di hit internazionali come “Sono bugiarda” (“I’m a believer” ndr)… era tutto un altro mondo.

Comunque in “Italian Graffiati” c’era un grosso lavoro di arrangiamento e di personalizzazione, anche vocale, non era un banale disco di revival.

Sì, però c’era anche rispetto verso quelle canzoni. Una cosa che non amo è quando sento delle canzoni talmente stravolte da diventare irriconoscibili. Una volta ho sentito una cantante italiana cantare “Yesterday” e l’ho capito dopo 2 minuti che si trattava di quella canzone. Devo dire che la Caselli mi disse una cosa: che il successo del disco era dovuto dall’aver messo insieme delle canzoni ormai digerite dal pubblico, ormai parte della memoria collettiva, in una mistura di demonio e santità. C’erano queste canzoni che rappresentavano la santità abbinate a un personaggio un po’ strano, sopra le righe, “diseducativo” come dicevano allora, e il mix di questi due elementi ha creato il successo del disco.

Quindi quando nel 1982 uscì “Ivan il terribile” pagò lo scotto di arrivare dopo “Italian Graffiati”.

Eh sì, pagò molto caro questo scotto, perché io ero tornato sui miei passi ma la gente non era abituata. Si aspettavano un’altra “Zebra a pois” mentre io ero tornato sulla mia strada. “Ivan il terribile” non è però il mio disco migliore, fu fatto anche un po’ di fretta per sfruttare il successo di “Italian Graffiati” e anche con un po’ di presunzione. Sai quando sei famosissimo e hai la convinzione che la gente ormai si berrà tutto di te, e invece non è vero, perché quei successi erano miei ma allo stesso tempo non erano miei. Recuperare il mio cammino è stato difficile, ed è difficile tuttora. Io sono tante cose, sono un pittore, e forse ha ragione la Caselli quando dice che sono troppe cose, che confondo la gente.

Di “Bandiera Gialla” che ricordo hai?

Un ricordo molto brutto perché mi fu un po’ imposto. “Italian Graffiati” per me era una cosa meravigliosa, perché era quasi avanguardia, come ho detto, nessuno faceva revival allora. C’erano stati dei tentativi nell’underground bolognese, ma nessuno aveva fatto un album concept come ho fatto io, col disco diviso tra “anni beat” e “anni ye-ye”. “Bandiera Gialla” invece era un progetto studiato a tavolino perché doveva servire alla discoteca di Rimini. Io poi non lo avrei mai voluto chiamare così perché tra l’altro non c’è neppure il pezzo, che come canzone non mi piace. Era tutto programmato da Ballandi e dalla Caselli, e io mi sono prestato a questa cosa perché il mio disco da artista vero non aveva avuto successo, quindi ho ripiegato su quello, ma ero veramente stanco e un po’ esasperato.

Come disco di revival è comunque molto diverso da “Italian Graffiati”. Qui gli arrangiamenti sono tutti molto simili, con largo uso dell’elettronica.

Sì, anche lì mi sono imposto. L’arrangiatore era il grande Roberto Cacciapaglia ma l’ho messo con le spalle al muro, gli ho detto “Non devi metterci una sola chitarra, deve essere tutto elettronico” e ovviamente per lui, che è un tastierista, fu un invito a nozze. Tieni presente che il disco uscì nel 1983, era nato già il digitale, per cui è normale che ci sia un uso massiccio dell’elettronica. Voglio anche specificare che poi alla fine il vero autore degli arrangiamenti fu Stefano Previsti, un grande musicista che purtroppo è morto. Volevo una cosa molto asettica, che suonasse differentemente da “Italian Graffiati”, che è più caldo, più analogico, però per dirla tutta a me non me ne fregava più niente del revival. Ho dovuto fare ancora “Vietato ai minori” (uscito nel 1986, ndr) perché la Caselli insisteva, così ho fatto quell’ultimo album per svincolarmi dal contratto discografico con la CGD, ma era un discorso che non mi interessava più.

Un esempio delle creazioni artistiche di Ivan Cattaneo

E poi un lungo periodo di silenzio discografico fino ad arrivare a “Il cuore è nudo”.

Ma nel frattempo ho fatto un sacco di altre cose. Ho fatto le “100 Gioconde”, che erano 100 quadri, un grosso esperimento che mi ha portato a essere quello che sono oggi, un pittore d’avanguardia. Il mio mercante d’arte è lo stesso di artisti come Ugo Nespolo, Domenico Cantatore o Marco Lodola. Io ho seguito la mia strada che è sempre stata la stessa da quando sono uscito dal Liceo Artistico, anzi, se vogliamo la musica era quasi un hobby, per certi versi. Ma continuo a fare musica. Ora sto facendo delle cose nuove e ho lavorato anche come autore, per Patty Pravo per esempio, per Al Bano e anche con alcuni altri artisti che non nomino per scaramanzia. Posso dirti però che ci saranno almeno un paio di pezzi miei che andranno a Sanremo…

Hai rarefatto le tue uscite discografiche ma “Il cuore è nudo” (uscito nel 1992, ndr) è davvero un disco bellissimo.

Credo che quel disco sia il più innovativo in assoluto che ho fatto, anche nei testi. Anticipava poi tutta la new age, era avanti da morire basato com’era sul Drum and Bass, e anche qui si dimostrava in anticipo su un genere che si affermerà solo anni dopo. Ciro Pagano e Stefano Mazzavillani dei Datura avevano fatto un lavoro meraviglioso per quanto riguarda gli arrangiamenti. Quel disco rappresenta davvero Ivan Cattaneo.