Scheda scritta da Andrea Montalbò, metallaro, scrittore e soprattutto amico…
“Ragazzi, se non avremo un titolo per questa sera, il disco uscirà senza. Siamo già fuori tempo”. “Siamo già fuori tempo” ovvero “we’re running Out Of Time”: la frase è di Mike Mills, bassista dei R.E.M.; il luogo è lo studio di registrazione dove la band sta concludendo le registrazioni del nuovo album, il tempo è il 1990. I quattro ragazzi di Athens, Georgia, sono reduci già da qualche mese dal lungo tour di “Green”, lavoro che ha ulteriormente incrementato la loro notorietà e il successo commerciale: in quel momento, l’etichetta “indie” e quella di un certo impegno “politico” sono ancora appiccicate – per fondati e ragionevoli motivi – al nome della band; con “Green” i R.E.M. avanzano ad ampi passi verso il confine con il cosiddetto “mainstream”. Il primo lavoro pubblicato dopo la firma con la Warner Bros porterà a casa il riscontro di ben due dischi di platino e il piazzamento del singolo “Stand” nella Top Ten USA. Tuttavia, con un gruppo di questo calibro e versatilità nessun termine (nessuna definizione), “indie” o “mainstream” che si voglia, è calzante o può contenere il suono, la capacità, la voglia di suonare e sperimentare. Prova ne è il lavoro immediatamente successivo, quello che per cominciare rischiava di non avere un titolo e finirà per intitolarsi proprio “Out Of Time”. E che, per continuare, non ha – a giudizio della stessa band – un brano adatto a uscire come singolo: tanto è vero che quando la Warner annuncia ai R.E.M. d’avere scelto “Losing My Religion” , la reazione dei musicisti, sempre raccontata da Mills, è la seguente: «Quando la compagnia discografica ci disse (…) quello che pensavano potesse essere il vero hit dell’album, noi rispondemmo che era una grande idea perché proprio non aveva senso. Era un brano lungo più di cinque minuti, senza cori, con un mandolino come strumento principale. Era perfetto per noi perché sfidava tutte le regole, è quello che ci piace fare». Con un titolo pescato a caso e un non-singolo, i R.E.M. ottengono il loro più vistoso successo di sempre: oltre dodici milioni di copie vendute in tutto il mondo, tre premi (su sette nomination) ai Grammy Awards del 1992 (e sei su otto agli MTV Video Music Awards del 1991); persino il premio, nel 2017, ai NME Awards come “miglior ristampa”. Con questi numeri, dovrebbe essere tutto chiaro. Tutto spiegato. Per niente. Se il titolo dell’album, al di là della genesi, riesce a essere allusivo ed elusivo al tempo stesso, il testo intero di “Losing My Religion” (e in particolare il passaggio del titolo) scatena una frenetica, frustrante, impossibile caccia al significato nascosto, al sottotesto. Che forse ci sono. O forse no. Soprattutto: si parla di religione, giusto?
Passo indietro: nella seconda metà del 1990, i R.E.M. sono letteralmente spiaggiati nella nativa Athens a smaltire le fatiche del tour di “Green” senza trascurare, però, la preparazione di materiale nuovo. Ancora spinti dall’ispirazione inquieta che soffierà nelle loro vele fino allo scioglimento del 2011, Bill Berry (batteria), Peter Buck (chitarra), Mike Mills (basso) e Michael Stipe (voce) avvertono, all’unisono, l’esigenza di cambiare qualcosa. Che “cosa”, decidono di scoprirlo work in progress: all’inizio, è la voglia di cimentarsi con strumenti e sonorità diverse dal passato. Peter Buck si è appassionato al suono del mandolino e mentre si esercita, a casa, più concentrato sull’impadronirsi della tecnica che altro, compone una melodia che gli sembra convincente. La porta in studio, la fa ascoltare agli altri che la apprezzano subito: è la base di “Losing My Religion”, semplice ed essenziale. Al tempo stesso, difficile da arrangiare: Mills deve sudare qualche camicia prima di trovare il giusto accompagnamento di basso. Lo trova, registrano e passano il tutto – seguendo quello che da sempre è il loro procedimento creativo – a Stipe per il tocco finale. Il testo e l’interpretazione. Convinto come gli altri che sia per i R.E.M. il momento di cambiare, il cantante sceglie di concentrarsi su una narrazione meno politica e più personale. Molto più personale. Il risultato, come la musica, è semplice e complesso. Immediato ma non così immediato. Lo spiega (continuando a farlo fino ai giorni nostri) lo stesso Stipe: «Desideravo scrivere una storia d’amore non corrisposto, su tenersi tutto dentro e protendersi in avanti e spingersi all’indietro di nuovo e poi ancora protendersi in avanti. E la cosa davvero più emozionante, per me, è non poter davvero sapere se le persone a cui ci si rivolge sono consapevoli di te; se davvero sanno che tu esisti. E’ una cosa davvero dolorosa e sentita (…)». In altri termini, “oh no, I’ve said too much / I haven’t said enough” (“oh, no, ho detto troppo / non ho detto abbastanza”). Detto che la frase “Losing My Religion” è un’espressione gergale tipica del sud degli Stati Uniti, il cui significato non ha nulla di mistico, in quanto allude al perdere la calma o le buone maniere (o sentirsi particolarmente frustrati); che Stipe discende da una famiglia di pastori metodisti e si è da tempo avvicinato al buddismo; che dopo avere composto il testo lo ha inciso in un’unica sessione, ispirato da quella che ha definito “una delle melodie migliori che la band mi abbia mai offerto”, il quadro dovrebbe essere abbastanza chiaro. O sufficientemente confuso. “Losing My Religion” non è soltanto testo e musica, è la perfetta sublimazione di uno stato d’animo personale e artistico; di un momento pubblico e privato, individuale e collettivo. Il tentativo di scrivere una canzone d’amore in stile “Every Breath You Take” dei Police (secondo Stipe) o una canzone suonata al mandolino per gridare ad altra voce (Mills dixit). Una canzone che non va ascoltata. Ma solo sentita.
Autori: Bill Berry / Peter Buck / Mike Mills / Michael Stipe
Anno di pubblicazione: 1991
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