Black Sabbath – Paranoid

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Scheda scritta da Andrea Montalbò, metallaro sotto mentire spoglie e grande scrittore, che ringrazio per essere stato il primo a raccogliere la sfida.

“Sentite, ragazzi, qui serve un pezzo tappabuchi. Ce la fate a improvvisare qualcosa?”
Siamo nel 1970, giugno: dall’inizio del mese l’URSS ha lanciato nello spazio la Sojuz 9, negli Stati Uniti Anna Mae Hays diventa la prima donna a essere nominata generale e l’Italia sconfigge per 4-3 la Germania nei mondiali di calcio. La guerra in Vietnam è in corso, in Europa si è appena aperta la stagione terrorista degli “anni di piombo”. A gennaio i Beatles incidono “Let It Be”, in settembre morirà Jimi Hendrix.
Nel mezzo quattro ragazzi di fresca fama incidono in cinque giorni il loro secondo album, negli stessi studi (i Regent Sound di Soho) dove hanno inciso il primo, già di rilevante successo; per il mixaggio finale si trasferiscono agli Island Studios, a Notting Hill. È qui che il produttore Rodger Bain decide che occorre ancora qualche minuto di materiale, giusto un’altra canzone, per completare il disco secondo gli standard dell’epoca. Come si dice in gergo, un filler.
Un riempitivo.
I ragazzi si chiamano Ozzy, Tony, Geezer e Bill; insieme si fanno chiamare Black Sabbath e in quel momento sarebbero più interessati a un panino che a un disco di platino ma non si può certo dire di no: Tony Iommi, chitarra solista, cerca di sfornare un altro ritornello alla sua maniera (è già famoso per essere una sorta di “macchina-da-riff”); Geezer Butler, bassista, si concentra su un testo che non si discosti dai cupi temi di attualità che gli sono cari; Bill Ward, batteria, improvvisa il ritmo e John “Ozzy” Osbourne… canticchia qualcosa. La sua voce, quel timbro nasale che può solo essere definito metallico, è un ingrediente essenziale nell’alchimia del gruppo: si staglia al di sopra della musica per portarne a un culmine nevrotico la liturgica pesantezza.
In breve, il brano è pronto. Non che i Sabbath siano molto soddisfatti: il risultato non sembra essere all’altezza del materiale già inciso; non raggiunge la compattezza e l’oscurità di “War Pigs” o “Iron Man”, non è una cavalcata avvolgente come “Electric Funeral” o “Fairies Wear Boots”. Tuttavia, dura meno di tre minuti. L’album è completato.
S’intitola “The Paranoid” ma perde l’articolo in meno del tempo occorso per comporlo.
Come racconta Osbourne nella sua autobiografia (“Io sono Ozzy”) insieme alla ricostruzione qui sopra esposta, i dirigenti della casa discografica Vertigo impiegano circa due secondi a capire che “Paranoid” E’ il brano che fa l’album: difatti, il titolo originale (era “War Pigs”, non a caso) viene subito modificato in quello del riempitivo, la cui durata è oltremodo perfetta per il passaggio in radio. Non può essere diversamente, considerato quanto quel singolo brano riesca a rappresentare e riassumere tutti gli umori peggiori – nevrosi, depressione, sociopatia, paranoia – nelle quali sta precipitando la società occidentale (non solo Geezer Butler che ha scritto il testo o i Sabbath già alle prese con problemi di alcool e droga); e Ozzy – voce e tutto il resto – è perfetto per cantare “Ho rotto con la mia donna perché non poteva aiutarmi con la mia mente / La gente pensa che io sia pazzo / perché me ne rimango imbronciato tutto il tempo” seguito dall’immortale “Puoi aiutarmi / a tenere occupato il mio cervello?”. Il tutto racchiuso nel classico ritornello-che-non-esce-più-di-testa (appunto).
Uscito nel settembre di quell’anno, “Paranoid” fu stroncato dalla critica ma sopravvisse (e bene) per arrivare a essere definito come il miglior album heavy metal di sempre, collezionando sino a oggi un record di oltre dieci milioni di copie vendute; per non parlare delle innumerevoli cover del singolo suonate da band metal di ogni generazione.
Davvero non male, per un semplice riempitivo.

Andrea Montalbò

Autori: Geezer Butler / Tony Iommi / Ozzy Osbourne /Bill Ward
Anno di pubblicazione: 1970

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